Ali Reza Jalali
In questi drammatici giorni in
cui abbiamo assistito, quasi in diretta, alle raccapriccianti immagini dalla
Francia, dove il fondamentalismo e il terrorismo di matrice islamista-salafita
hanno colpito il cuore del vecchio continente, è iniziata la solita serie di
commenti degli analisti politici su come arginare il terrorismo e su come
approcciarsi rispetto ai problemi della società europea, ormai multiculturale e
multi-religiosa. In questa sede non voglio soffermarmi sulle radici del
problema, in quanto, così come stanno le cose, non si può evidentemente tornare
indietro e cercare di sistemare le cose.
Bisogna andare avanti, anche perché,
come le esperienze dell’ultimo decennio insegnano, la Storia non è maestra di
vita; questi problemi si erano posti anche dopo l’11 settembre 2001 e puntualmente
dopo gli attacchi a Londra e Madrid. Se non si è riusciti a trovare delle
soluzioni al problema del terrorismo di matrice islamista e a quello del
multiculturalismo, i motivi potrebbero essere molteplici, ma eviterei di
addentrarmi in questi dibattiti: quindi, vediamo cosa fare per il futuro.
Ci
sono, come abbiamo detto, due problemi: il terrorismo islamista e il
multiculturalismo in Europa. I due temi sono intrecciati tra loro, ma
richiedono discorsi separati. Il terrorismo islamista nasce fuori dall’Europa,
si afferma fuori dal vecchio continente e, le statistiche lo dimostrano,
deborda in Europa, fortunatamente, in modo saltuario. Non conosco esattamente i
numeri, ma così, su due piedi, mi verrebbe da dire che il terrore per ogni
colpo che infligge in Europa, compie centinaia di stragi nel mondo musulmano,
ergo, le principali vittime del radicalismo islamico sono i musulmani.
D’altro
canto si potrebbe obiettare a questa argomentazione dicendo che di quello che
avviene fuori dall’Europa ce ne freghiamo altamente, dobbiamo pensare ai fatti
nostri. Se accettassimo tale tesi però, dovremmo in primo luogo ritirare le
truppe e la presenza militare europea in giro per il mondo, visto che la
priorità sarebbe quella di combattere il terrore in casa nostra.
A parte la pochezza di vedute che comporta
tale analisi, questa via a oggi non è percorribile visto l’alto grado di
permeabilità della comunità internazionale che grazie ai processi di globalizzazione
ci ha resi, volenti o nolenti, collegati al resto del mondo; teorie
isolazioniste mi sembrano fuori luogo. Il terrorismo deve essere combattuto sul
fronte interno e su quello internazionale, perché esso si alimenta fuori
dall’Europa e solo una parte minima delle reti terroristiche islamiste, sia a
livello strutturale, sia a livello delle azioni violente compiute, opera qui.
Il terrore quindi va combattuto alla fonte, nei paesi dove per vari motivi tale
fenomeno nasce e si alimenta. Il terrorismo si combatte con la guerra; con le
parole e con l’educazione vorrei proprio vedere come si ferma una banda di
fanatici armati fino ai denti. Poi vi è il lato della radice del problema:
organizzare entità violente che agiscono, come Al Qaida o l’ISIS, su base
transfrontaliera, richiede uno sforzo organizzativo, economico, logistico e
militare immane.
Queste attività sovversive richiedono una grande preparazione
che può essere attuata solo da grandi entità, private o pubbliche che siano.
Quindi alla base del terrorismo ci devono per forza essere grandi enti
internazionali, come organizzazioni o organismi di vario genere, oppure, molto
più semplicemente, gli Stati nazionali e i loro apparati di sicurezza. Senza
andare troppo indietro nel tempo e senza fare troppi esempi, possiamo dire che
l’attuale minaccia terrorista denominata ISIS si afferma tra Iraq e Siria con
l’obiettivo dichiarato di destabilizzare in primo luogo due Stati nazionali del
mondo arabo, Iraq e Siria appunto, per poi lanciarsi, almeno questo è quello
che dicono i dirigenti di tale formazione, in una sorta di conquista del mondo
islamico e dell’Occidente.
Quindi, l’ISIS, nel breve ha due nemici: il governo
iracheno e quello siriano, ma in prospettiva gli avversari sono anche i paesi
europei. Per difendere l’Europa urge quindi un coordinamento a livello di
apparati di sicurezza con questi due governi del Medio Oriente, e un serio
avvertimento ai paesi che, in nome dell’avversione a questi due paesi
mediorientali, per progetti geopolitici, hanno innescato un processo di
sostengo all’estremismo islamico finalizzato alla deposizione di regimi e
governi nemici.
La lotta al terrorismo sul piano interno europeo, e tale
fenomeno ha degli evidenti legami col più ampio problema del multiculturalismo,
è un aspetto che procede su due binari paralleli: repressione ed educazione.
L’apparato repressivo dello Stato non può certamente andare in ibernazione in
nome delle libertà individuali, anche perché le libertà sono garantite dallo
Stato, dall’ordinamento giuridico; senza lo Stato, in caso di sconfitta di esso
da parte del terrorismo, non ci sarebbe più il garante delle libertà dei
cittadini.
La sicurezza della collettività e le garanzie individuali sono
strettamente connesse; se manca la sicurezza pubblica, verrà a mancare il
garante della libertà dei cittadini. L’apparato repressivo però non può agire
da solo in tale contesto: vi è indubbiamente l’obbligo da parte della
collettività di promuovere l’educazione alla convivenza: la società europea,
che piaccia o no, è ormai un modello multiculturale. Tale tipo di società ha
bisogno di valori forti in nome dei quali unificare gli intenti, anche quelli
di chi almeno in partenza ha in mente un tipo di cultura completamente
antitetica rispetto al paese europeo ospitante.
Chi deve adeguarsi al modello
europeo, che in ogni caso garantisce uno spazio per le libertà, anche religiose
degli immigrati, sono gli ospiti della casa Europa; questo processo di
adeguamento avviene attraverso l’educazione civica e scolastica. Non bisogna
avere paura, in nome del multiculturalismo, di promuovere tali concetti,
altrimenti si rischia solo di fare ulteriore confusione.
Certo, l’educazione
deve essere promossa anche nei confronti degli autoctoni, che in alcuni casi
estremi, come dimostra la presenza di terroristi di origine europea proveniente
da famiglie non musulmane, imbracciano una fede radicale a scopo sovversivo e
terroristico, dimostrando come il fattore educativo non deve essere rivolto
solo ai nuovi arrivati, ma a tutti i cittadini in modo indiscriminato.
Il resto
sono urla e farneticazioni di chi, in nome della lotta al terrorismo islamista,
in nome della difesa dell’Occidente cristiano – solo loro hanno visto un
“Occidente cristiano”, ovunque mi giro, al massimo, io vedo un Occidente
illuminista, laicista e dissacrante, sulla falsa riga del giornale satirico
francese oggetto della bestiale furia fondamentalista – vuole solo creare una
atmosfera di caccia alle streghe finalizzata a qualche voto in più da prendere
o a qualche copia di giornale in più da vendere.
Un eventuale Occidente
cristiano era da difendere il 14 luglio del 1789 a Parigi, non nel gennaio del
2015, nella stessa città; ora è un po’ tardi. Chi ha sconfitto l’Occidente
cristiano sono stati i Lumi alla “Charlie”, non i fondamentalisti islamici. Per
difendere l’Europa da questi ultimi non servono le urla in televisione, ma una
razionale condotta basata sulla repressione qui e nel mondo del fenomeno, con
corrette alleanze internazionali, soprattutto nel mondo musulmano, combinata a
una politica ragionevolmente rigida sul fronte dell’immigrazione e del
multiculturalismo.
Ma so bene che queste, in ogni caso, sono parole al vento;
anche dopo l’undici settembre alcuni dicevano queste cose…