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Blog personale del ricercatore Ali Reza Jalali, studioso di questioni geopolitiche, religiose, storiche, culturali e giuridiche del Medio Oriente e dell'Iran
lunedì 16 maggio 2016
martedì 3 maggio 2016
Ruhollah Khomeini: lo “spirito di Dio” nel XX secolo (Si ricorda il convegno del 4 giungo 2016 a Roma)
Questo articolo è apparso per la prima volta sul sito internet della rivista "Eurasia" nel 2012, in occasione dell'anniversario della dipartita dell'Imam Khomeini. Nel riproporre tale testo ai lettori del blog, ricordiamo l'importante convegno internazionale del prossimo 4 giugno 2016 a Roma (vedi in fondo al testo).
di Ali Reza Jalali
Nel giugno del 1989 scomparve una delle figure più affascinanti del Novecento, l’imam Khomeyni, guida politica e spirituale della Rivoluzione islamica iraniana del 1979. Questo grande intellettuale, sapiente e gnostico, ha saputo coniugare impegno politico, mistico ed etico come pochi, attirando l’attenzione di persone di diverse culture in tutto il mondo.
Quando si chiede agli studiosi, chi sia stato il più importante personaggio politico del Novecento, le risposte, in base alle varie sensibilità, potrebbero essere molto diverse. Normalmente, i nomi delle guide politiche sono collegati a degli avvenimenti storici epocali e a dei cambiamenti sociali senza precedenti. Nel linguaggio politico, una svolta sociale, economica, politica, giuridica, culturale e spirituale senza precedenti è definita come “rivoluzione”. Quando ero un liceale, ebbi la fortuna di leggere un libro di René Guénon dal titolo suggestivo: La crisi del mondo moderno (1). La prefazione del libro era stata curata da Julius Evola, che in quell’occasione descrisse in modo esemplare il concetto di “rivoluzione”. Secondo Evola la parola “rivoluzione” può avere due significati: uno “esteriore” ed uno “nascosto”. Il primo significato è quello comunemente ritenuto valido, ovvero un “cambiamento brusco e violento della struttura politica e sociale dello Stato” (2). Ma il pensatore italiano si concentrò soprattutto sul significato “esoterico”, ovvero quello legato all’interpretazione di “rivoluzione” non in un ambito politico e “mondano”, ma spirituale, legato, per certi aspetti, alla “rivoluzione” dei corpi celesti. In questo senso, la “rivoluzione” è un percorso che inizia in un punto specifico, e dopo il compimento di un percorso ordinato e armonioso, si conclude nello stesso punto di partenza (come ad esempio, i moti di “rivoluzione” della Luna intorno alla Terra, o della Terra intorno al Sole). Quindi una “rivoluzione” che premia non il “cambiamento”, radicale o meno, ovvero una “modernizzazione”, bensì una “rivoluzione” nel solco della “tradizione”. Con questo punto di vista, una vera rivoluzione non consiste solo in un cambiamento della struttura sociale e politica, come lo sono state la Rivoluzione francese del 1789 o quella americana di poco precedente, ma soprattutto il “ritorno” ad un punto di partenza mistico e spirituale. In questo senso, l’Origine di tutto è l’Essere Primordiale, lo Spirito di Dio. Se questa è l’ottica gnostica per un’analisi completa del significato di rivoluzione, allora l’unica “vera” rivoluzione novecentesca è stata quella islamica in Iran, nel 1979. E se volessimo fare il nome di un personaggio politico che ha cambiato le sorti dell’umanità nel XX secolo, saremmo costretti a fare il nome della guida di quella rivoluzione iraniana, l’Ayatollah (3) Ruhollah (4) Khomeyni.
In questi giorni ricorre l’anniversario della sua morte, avvenuta nel giugno del 1989. L’evento funebre rappresentò uno degli spettacoli sociali e spirituali più importanti del Novecento; infatti, quando agli iraniani arrivò la notizia della morte del loro amato “imam” (5), iniziò un movimento spontaneo, da diverse zone del Paese e della capitale Tehran, di milioni di individui verso i luoghi della vita della loro guida, dalla sua umile dimora a Jamaran, nella periferia settentrionale della capitale iraniana, fino al cimitero “Beheshte Zahra”, dalla parte opposta di Tehran. Il viaggio mistico e politico dell’imam Khomeyni, almeno dal 1979, era iniziato proprio in questo cimitero, dove egli era andato, appena tornato dall’esilio all’estero, per commemorare i martiri della rivoluzione. Anche questo processo “rivoluzionario”, nel senso evoliano del termine, di ritorno al punto di partenza, dimostra la grandezza dell’Ayatollah Khomeyni. Ma egli non era solo un uomo politico, che presentando un modello spirituale, tradizionale e teocentrico aveva sconvolto il mondo bipolare di allora, basato sull’apparente contrapposizione di due ideologie moderne e laiche (se non atee) quali il capitalismo liberale e il marxismo, per certi aspetti “due facce della stessa medaglia” (6).
L’imam Khomeini: “hakîm” del nostro tempo
Spesso in Occidente si parla delle idee politiche dell’Ayatollah Khomeyni, ma si trascura il fatto che egli, prima di essere un uomo politico, era un grande gnostico, un filosofo, un giurista, un poeta e un artista. In ambito iranico, i sapienti dell’antichità erano chiamati “hakîm”; l’appellativo di hakîm (saggio) veniva concesso agli scienziati che avevano il pregio di essere dotti in diversi ambiti, non solo, ad esempio, in filosofia, teologia, giurisprudenza o nelle scienze sperimentali, ma in tutte le scienze contemporaneamente. Per esempio, Avicenna (980-1037), nativo della regione del “Grande Khorasan” (Asia centrale) e morto a Hamadan (odierno Iran occidentale), era soprannominato appunto “hakîm” perché oltre a essere un filosofo di altissimo rango era anche un noto e famoso medico (celebre il suo libro “Il Canone”, considerato all’avanguardia anche in Europa fino a tutto l’Ottocento). Dire quindi che l’imam Khomeyni sia stato un “hakîm” del nostro tempo non è un’esagerazione, visto che egli era competente in diverse scienze. Nei suoi libri e nei suoi discorsi si rintracciano infatti aspetti importanti delle sue conoscenze, anche se l’Ayatollah, per via di una grande umiltà, non amava esibire troppo il proprio sapere. La sua umiltà era una delle caratteristiche della sua grandezza. In un suo discorso disse:
“Lo giuro su Dio, io non ho ancora avuto l’onore di eseguire due rak‘at (7) di preghiera per la causa di Dio, ma tutto quello che faccio, purtroppo, è per amore del mondo”.
Una frase del genere, detta da un uomo qualunque non sarebbe nulla di clamoroso. Ma se a proferirla è un uomo colto, sapiente, mistico di livello immenso come l’imam Khomeyni, si può comprendere l’umiltà di questo “rivoluzionario”, non solo per questioni politiche, ma principalmente per la sua forza spirituale, che ha affascinato molte persone, amici e nemici, tutti concordi sull’immensità dell’”imam della comunità” (8).
Il grande “jihâd”
L’aspetto in assoluto più interessante dell’insegnamento dell’imam riguarda il fatto di coniugare l’impegno sociale e politico con l’etica e la morale. In un’epoca in cui si parla tanto di “Stato laico”, l’imam rivendicava con forza la necessità che la politica non si dividesse dall’etica, in quanto la militanza senza etica si trasforma spesso, come la storia del Novecento ci insegna, in massacri, guerre e distruzione. Ovviamente anche la religione può essere accompagnata da violenza, ma l’esperienza insegna che senza etica, lo sterminio è una cosa normale. Le guerre mondiali nel XX secolo, che hanno visto lo scontro tra ideologie “moderne” e “laiche”, hanno lasciato sul campo decine di milioni di vittime, cosa che le guerre di religione non avevano mai fatto, almeno per ciò che concerne la quantità dei morti. L’imam Khomeyni amava spesso ripetere una tradizione del profeta Muhammad:
“Torniamo vincitori da un piccolo jihâd, e ci apprestiamo a combattere un grande jihâd”. (9)
Secondo l’interpretazione dell’imam, in questa tradizione il Profeta dell’Islam ha voluto sottolineare come la guerra propriamente detta, l’impegno politico e sociale, siano cosa secondaria rispetto alla “grande guerra” che ogni essere umano deve intraprendere per controllare i propri istinti animali che lo allontanano dalla Via di Dio. Un impegno politico senza l’autocontrollo porterebbe infatti l’uomo su una via già percorsa da molti famosi “rivoluzionari” che prima di ottenere il potere si comportano in modo impeccabile, ma una volta preso il controllo della “cosa pubblica” il loro comportamento diviene addirittura peggiore dei loro predecessori. Il caso emblematico è la Rivoluzione francese, contraddistinta da grandi violenze e usurpazioni, in nome della “Dea Ragione”. I giacobini, a forza di massacrare i loro oppositori, finirono per essere più odiati del monarca dispotico che avevano in precedenza combattuto. Nel pensiero dell’imam, quindi, lo sforzo mistico per raggiungere uno stato di autocontrollo quasi totale (grande jihâd) è più importante della politica, almeno intesa in senso secolare. Più volte l’Ayatollah ha ribadito la sua totale convinzione riguardo a ciò; non solo in ambito politico, ma anche per le conoscenze scientifiche. Egli in un famoso discorso disse:
“La scienza deve essere accompagnata dall’etica; una scienza senza etica è pericolosissima. Se dovessi scegliere tra le conoscenze scientifiche senza l’etica o l’etica senza la conoscenza, sceglierei sicuramente la seconda via”.
Come non condividere una tale analisi, alla luce dei massacri compiuti per mezzo ed in nome di una scienza “moderna” che non è accompagnata da un’etica a misura d’uomo? Tale questione, sollevata da questa grande figura di “rivoluzionario” misconosciuta in Occidente, resta a tutt’oggi di fortissima attualità.
NOTE:
(1) René Guénon, La crisi del mondo moderno, (trad. it.) Edizioni Mediterranee, Roma 1972.
(2) Giuseppe Pittano, Dizionario italiano, Gulliver, Chieti 1995.
(3) Quella di Ayatollah, letteralmente “segno di Dio”, è la più alta carica della gerarchia del clero in ambito islamico sciita.
(4) Ruhollah, il nome di “battesimo” dell’Ayatollah Khomeini, vuol dire letteralmente “Spirito di Dio”, e in ambito islamico è il soprannome di Gesù Cristo.
(5) Nell’islam sciita, il concetto di “imam” (letteralmente “colui che sta avanti”) implica non solo, come in ambito sunnita, la persona che guida la preghiera congregazionale o un esperto di scienze islamiche, ma soprattutto la guida politica e spirituale della comunità dopo il profeta Muhammad, ovvero i dodici “imam immacolati” della tradizione sciita (per questo gli sciiti sono anche definiti “duodecimani”). Nel caso dell’Ayatollah Khomeyni, però, rappresenta più che altro un titolo che vuole sottolineare, da un lato, la grandezza della personalità dell’imam, dall’altro, il forte legame spirituale e affettivo che lo legava alla sua gente.
(6) Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Marsilio, Venezia, 2002.
(7) La “salât”, l’orazione rituale islamica, obbligatoria per i musulmani e da eseguirsi cinque volte al giorno in momenti stabiliti in base al movimento apparente del sole, è composta da un numero variabile, a seconda della preghiera, di “unità di misura” definite “rak‘at”, che a loro volta comprendono una serie prestabilita di formule e movimenti. Ad esempio la preghiera del mattino è composta da due rak‘at, quella di mezzogiorno da quattro rak‘at ecc. Dire di non aver effettuato neanche due rak‘at per la causa di Dio, vuol dire di non essere degno di un certo rango elevato. Quanta umiltà in questo grande uomo! Cosa dovremmo dire allora noi persone comuni, che non appena compiano un’azione positiva pensiamo di aver raggiunto chissà quale “stazione divina”… Non a caso un grande sapiente dell’antichità come Socrate diceva: “L’unica cosa che conosco è che non conosco nulla”.
(8) Uno dei tanti appellativi dell’Ayatollah Khomeyni (in persiano “emam-e ommat”).
(9) Gli “ahâdîth”, ovvero le tradizioni e i racconti riferiti all’”esempio virtuoso” del Profeta Muhammad, sono tra le principali fonti delle scienze islamiche in generale e del diritto islamico (“fiqh”) in particolare. Questa specifica tradizione è riferita ad una battaglia condotta dai musulmani di Medina contro i politeisti meccani, nella quale la fazione del profeta Muhammad aveva prevalso. Il Profeta vedendo molta allegria e anche un certo atteggiamento vanaglorioso da parte dei suoi soldati, pronunciò questa frase per far capire che la guerra contro i nemici è nulla in confronto alla battaglia per l’autocontrollo, quella contro il proprio ego. Sul concetto di “jihâd” poi andrebbero dette molte altre cose, ma qui bisogna sottolineare come spesso in Occidente vi sia una traduzione sbagliata di questo termine. Letteralmente “jihâd” vuol dire “sforzo”, inteso come “sforzo per la causa di Dio”; qualsiasi opera che venga posta in essere con l’intento di compiacere il creatore è “jihâd”, dunque non solo la guerra contro un ipotetico nemico della comunità islamica che abbia intrapreso un’azione militare contro i musulmani, ma anche e soprattutto questioni come scrivere un libro per compiacere il Creatore, giocare con i propri figli per amore del Compassionevole, parlare gentilmente con le persone come segno di devozione all’Altissimo, sono tutte delle forme di jihâd. Anzi, di “grande jihad”.
Convegno internazionale dedicato alla figura dell'Imam Ruhollah Khomeini
Il Centro Studi Internazionale Dimore della Sapienza - in collaborazione con Irfan Edizioni, Istituto Culturale della Repubblica Islamica dell'Iran, Unione delle Associazioni Islamiche degli Studenti - Italia, Libreria Raido, Associazione Identità Europea - presenta: convegno internazionale dedicato alla figura dell'Imam Ruhollah Khomeini, grande filosofo, gnostico, giurista e leader politico musulmano del Novecento. Luogo: Roma, presso Hotel Best Western (zona stazione Tiburtina) Data: 04 - 06 - 2016 ore 15.
Per maggiori informazioni vedi la locandina ufficiale del convegno
Partecipano alla discussione con varie relazioni
Giuseppe Aiello (Editore Irfan Edizioni e vice presidente Centro studi Dimore della Sapienza)
Paolo Rada (Studioso e direttore del dipartimento di studi storici del Centro studi Dimore della Sapienza)
Akbra Gholi (Direttore Istituto culturale Repubblica Islamica Iran)
Adolfo Morganti (Editore Il Cerchio e presidente associazione Identita' Europea)
Claudio Mutti (Editore Ed. All'Insegna del Veltro e direttore della rivista Eurasia)
Hujjatulislam A. Emami (Studioso e sapiente religioso sciita)
Modera
Ali Reza Jalali, presidente centro studi Dimore della Sapienza
L'evento viene organizzato nell'anniversario della dipartita dell'Imam Khomeini (4 giugno 1989)
Le relazioni saranno in italiano o in persiano (con traduzione simultanea in italiano)
info: Segreteria organizzativa, Giuseppe Aiello tel. 3297223003
domenica 24 aprile 2016
Convegno internazionale dedicato alla figura dell'Imam Ruhollah Khomeini a Roma il 4 giugno
Il Centro Studi Internazionale Dimore della Sapienza - in collaborazione con Irfan Edizioni, Istituto Culturale della Repubblica Islamica dell'Iran, Unione delle Associazioni Islamiche degli Studenti - Italia, Libreria Raido, Associazione Identità Europea - presenta: convegno internazionale dedicato alla figura dell'Imam Ruhollah Khomeini, grande filosofo, gnostico, giurista e leader politico musulmano del Novecento. Luogo: Roma, presso Hotel Best Western (zona stazione Tiburtina) Data: 04 - 06 - 2016 ore 15.
Per maggiori informazioni vedi la locandina ufficiale del convegno
Partecipano alla discussione con varie relazioni
Giuseppe Aiello (Editore Irfan Edizioni e vice presidente Centro studi Dimore della Sapienza)
Paolo Rada (Studioso e direttore del dipartimento di studi storici del Centro studi Dimore della Sapienza)
Akbra Gholi (Direttore Istituto culturale Repubblica Islamica Iran)
Adolfo Morganti (Editore Il Cerchio e presidente associazione Identita' Europea)
Claudio Mutti (Editore Ed. All'Insegna del Veltro e direttore della rivista Eurasia)
Hujjatulislam A. Emami (Studioso e sapiente religioso sciita)
Modera
Ali Reza Jalali, presidente centro studi Dimore della Sapienza
L'evento viene organizzato nell'anniversario della dipartita dell'Imam Khomeini (4 giugno 1989)
Le relazioni saranno in italiano o in persiano (con traduzione simultanea in italiano)
info: Segreteria organizzativa, Giuseppe Aiello tel. 3297223003
giovedì 7 aprile 2016
I BALCANI: EURASIA 1/2016
Si segnala l'uscita del nuovo numero della rivista scientifica di Area 12 "Eurasia. Rivista di studi geopolitici", con un contributo del Direttore del Dipartimento di Studi giuridici e politici del Centro Studi Internazionale Dimore della Sapienza. Di seguito l'editoriale e il sommario. Per ogni ulteriore informazione rivolgersi direttamente ai contatti presenti sul sito ufficiale della rivista.
http://www.eurasia-rivista.org/scriverci/
I BALCANI
di Claudio Mutti*
Nel suo celebre libro sulla “Grande Scacchiera” eurasiatica, Zbigniew Brzezinski indica alla superpotenza statunitense quelli che il sottotitolo stesso definisce come “i suoi imperativi geostrategici”. Il capitolo in cui l’autore suggerisce agli USA di dominare l’intero continente utilizzando e favorendo l’anarchia etnica, religiosa e politica reca un titolo eloquente: I Balcani eurasiatici (The Eurasian Balkans). “In Europa – scrive Brzezinski – la parola Balcani evoca immagini di conflitti etnici e di rivalità regionali di grandi potenze. Anche l’Eurasia ha i suoi Balcani, ma i Balcani eurasiatici sono molto più estesi, più popolosi, ancor più eterogenei sotto il profilo religioso ed etnico. Si trovano in quell’ampia ed oblunga area geografica che contrassegna la zona centrale di instabilità globale (…) che abbraccia porzioni dell’Europa sudorientale, l’Asia centrale e parti dell’Asia meridionale, l’area del Golfo Persico e il Medio Oriente”1.
Da parte sua, il geopolitico François Thual, analizzando il fenomeno mondiale della proliferazione degli Stati e della corrispondente frammentazione politica del pianeta, paragona l’emergere delle nazioni dell’America latina alla nascita degli Stati balcanici. Inoltre, Thual applica il concetto di balcanizzazione alla devoluzione della parte araba dell’Impero ottomano: “la morte dell’Impero ottomano prima nei Balcani e poi nel mondo arabo ha inaugurato un processo di spezzettamento che è durato novant’anni nella parte europea e centoquarant’anni nell’altra”2.
Bastino questi due esempi per mostrare come il lessico geopolitico faccia ricorso alla metafora dei Balcani ed al termine balcanizzazione per indicare un’area afflitta da instabilità e disordine cronici dovuti a conflitti etnici e religiosi, nonché il corrispondente processo di disgregazione degli Stati.
Il termine balcanizzazione nacque nelle cancellerie europee alla fine della prima guerra mondiale, che segnò la scomparsa di quattro imperi e la nascita di entità statuali mai esistite prima d’allora, fra cui il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni; ma già i cento anni precedenti (intercorsi fra la rivolta serba del 1815 e la fine della seconda guerra balcanica, nel 1913) avevano assistito all’ultima fase dell’indebolimento ottomano ed alla nascita di sei nuovi Stati: Grecia, Serbia, Montenegro, Romania, Bulgaria, Albania.
Ma neanche la Grande Guerra pose un termine definitivo al processo balcanico di dissoluzione. La disintegrazione dello Stato jugoslavo fra il 1991 e il 2008 ha dato alla luce sette staterelli: Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Cossovo. Questo ulteriore processo di disgregazione ha confermato presso l’opinione pubblica dell’Europa occidentale la validità del termine balcanizzazione, rafforzandone le connotazioni negative, le quali non si riferiscono soltanto al fenomeno della parcellizzazione territoriale ed all’instabilità politica, ma anche a violenti conflitti etnico-religiosi ed a fenomeni di pulizia etnica.
La regione che ha prestato il suo nome3 alla metafora con cui vengono indicati i fenomeni suddetti è la penisola limitata ad est dal Mare Egeo, a sud dal Mediterraneo, ad ovest dallo Jonio e dall’Adriatico. A nord, l’interpretazione più estensiva fissa il confine della penisola in corrispondenza della linea immaginaria Trieste-Odessa; ma per lo più si tende ad assumere come limite settentrionale la linea segnata dal corso inferiore del Danubio, da quello della Sava e del suo affluente Kupa (tra Slovenia e Croazia, non lontano da Fiume). In conformità di questo secondo punto di vista, possono essere considerati paesi balcanici a pieno titolo la Bulgaria, l’Albania, la Grecia e gli Stati successori della Jugoslavia (tranne la Slovenia, che viene inserita nel gruppo dei “paesi alpini”4, ma è ritenuta parte integrante dei Balcani per varie ragioni). Paesi parzialmente balcanici, infine, sono la Romania e la Turchia.
Su questo territorio è stanziata una decina di popoli, nonché vari gruppi etnici minori; vi si parlano idiomi di diversa origine (tre o quattro lingue slave, il romeno, l’albanese, il neogreco, il turco) e vi si praticano religioni diverse (l’Ortodossia, il Cattolicesimo, l’Islam).
Il complesso mosaico costituito da una tale varietà etnica e culturale ha offerto agli strateghi dello “scontro delle civiltà” la possibilità di favorire quel genere di conflitti che vengono chiamati “guerre di faglia”5; è stata infatti la Federazione Jugoslava, la costruzione statale più rappresentativa di tutto il mosaico balcanico, a fornire il terreno per “il più complesso, confuso e variegato intreccio di guerre di faglia dei primi anni Novanta”6.
Data la sua natura geografica di “prolungamento dell’Asia anteriore sul suolo europeo”7, oggi la penisola balcanica subisce immediatamente, prima di altre regioni, l’impatto di destabilizzanti ondate migratorie destinate a trasmettersi al resto dell’Europa. Nei primi due mesi del 2016 la Grecia ha registrato l’arrivo di 132.200 individui, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente gli arrivi erano stati 3.952. Per quanto riguarda gli altri paesi della cosiddetta “rotta balcanica”, dall’inizio del 2016 alla fine di febbraio si hanno i seguenti dati: Macedonia 89.000, Serbia 93.600, Croazia 103.200, Slovenia 98.400. Gli arrivi concernenti l’Ungheria e l’Austria sono stati, rispettivamente, 3.600 e 110.700.
La situazione prodotta da tali ondate ha indotto perfino il commissario europeo per le migrazioni e gli affari interni, Dimitris Avramopoulos, a paventare il rischio di un collasso totale. Contemporaneamente, l’ex ministro della Difesa italiana Mario Mauro rivelava che le forze militari della missione Kfor avevano ricevuto l’ordine di traghettare sulle coste italiane i 150.000 clandestini bloccati tra il Cossovo e l’Albania. Lo stesso comandante della missione NATO, il generale Miglietta, il 27 gennaio aveva dichiarato alla Commissione Difesa del Senato italiano che, secondo informazioni provenienti dai servizi segreti europei, qualche centinaio di terroristi del cosiddetto “Stato Islamico” si era già mescolato alla folla dei clandestini.
L’assistenza fornita dalle forze militari della NATO al disordine migratorio è un’ulteriore conferma di ciò che abbiamo sostenuto su queste pagine8: le “migrazioni artificiali coercitive” (coercive engineered migrations) teorizzate negli USA9 si configurano come un’arma non convenzionale che, al pari di altre armi non convenzionali impiegate nella “guerra senza limiti”, viene usata contro l’Europa.
* Direttore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.
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- “In Europe, the word Balkans conjures up images of ethnic conflicts and great-power regional rivalries. Eurasia, too, has its Balkans, but the Eurasian Balkans are much larger, more populated, even more religiously and ethnically heterogeneous. They are located within that large geographic oblong that demarcates the central zone of global instability (…) that embraces portions of southeastern Europe, Central Asia and parts of South Asia, the Persian Gulf area, and the Middle East” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy And Its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 123).
- François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, p. 50.
- Propriamente, Balcani (dal turco balkan, “montagna” o “catena montuosa”) è il nome del sistema montuoso che si estende dal fiume Timok, affluente di destra del Danubio, al Capo Emine sul Mar Nero. Di qui le denominazioniBalcania e Penisola balcanica.
- Cfr. ad esempio The Reference Atlas of the World, Dorling Kindersley Ltd, London 2004; Atlante del Mondo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001.
- “I conflitti di faglia sono conflitti fra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà, e assumono carattere violento. Simili guerre possono verificarsi tra stati, tra gruppi non governativi, oppure tra stati e gruppi non governativi. I conflitti di faglia all’interno di uno stato possono coinvolgere gruppi prevalentemente localizzati in aree specifiche del paese, nel qual caso il gruppo che non controlla il governo lotta solitamente per la propria indipendenza e può essere disposto (ma può anche non esserlo) a sedare il conflitto per un obiettivo un po’ inferiore. I conflitti di faglia all’interno di uno stato possono anche coinvolgere gruppi geograficamente interconnessi, nel qual caso rapporti costantemente tesi erompono di tanto in tanto in scontri violenti (…) A volte i conflitti di faglia riguardano lotte per il controllo di popolazioni. Più di frequente, la posta in palio è il controllo di territorio. Obiettivo di almeno uno dei belligeranti è conquistare territorio e liberarlo da chi vi abita mediante espulsione coatta, eliminazione fisica, o entrambe le cose, vale a dire mediante operazioni di ‘pulizia etnica’. Simili conflitti tendono ad essere particolarmente violenti e brutali, con il ricorso da entrambe le parti al massacro, al terrorismo, allo stupro e alla tortura. Spesso il territorio oggetto di contesa è per uno o per entrambi i contendenti un simbolo vitale della propria storia ed identità, terra sacra sulla quale vantano un diritto inviolabile: la West Bank in Palestina, il Kashmir, il Nagornyj-Karabach, la valle della Drina, il Kosovo” (Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, pp. 374-375).
- Samuel P. Huntington, op. cit., p. 419.
- “L’Espagne, l’Italie des Apennins, le Nord et l’Ouest de la presqu’île égéenne sont les prolongements de l’Asie antérieure et de l’Afrique sur le sol européen” (Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance. La géopolitique aujourd’hui, Éditions du Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 109).
- “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XII, n. 4 (“Migrazioni”), ottobre-dicembre 2015
- “I define coercive engineered migrations (or migration-driven coercion) as those cross-border population movements that are deliberately created or manipulated in order to induce political, military and/or economic concessions from a target state or states” (K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca and London 2010).
I BALCANI
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi
EDITORIALE
Claudio Mutti, I Balcani
DOSSARIO: I BALCANI
Stefano Vernole, I Balcani, motore della storia europea?
Da sempre l’area balcanica è al centro degli interessi nazionali e tutto quello che accade in quella regione ha conseguenze importanti per la stabilità dell’Italia. Attualmente nei Balcani assistiamo a una duplice criticità, economico-demografica e identitaria, che rischia di travolgere quanto è stato determinato dalle nazioni occidentali dopo gli Accordi di Dayton nel 1995 e l’aggressione alla Federazione Jugoslava nel 1999. Sullo sfondo traspare, in maniera sempre più evidente, l’antica contrapposizione tra potenze tellurocratiche e potenze marittime, ieri simboleggiata dalla competizione tra Berlino e Londra, oggi dalla nuova guerra fredda tra Mosca e Washington.
Edoardo Corradi, I Balcani non sono più una priorità per Mosca
La Russia, sia in epoca zarista che durante l’Unione Sovietica, ha sempre indirizzato la propria geopolitica verso lo sbocco sul Mar Mediterraneo, dando particolare importanza al ruolo della penisola balcanica. A rendere più semplice il lavoro della Russia è stata la vicinanza etnica e religiosa con le popolazioni balcaniche, in particolar modo con la Serbia, dando vita all’idea panslavista nella regione. Tuttavia, con la fine dell’Unione Sovietica e in particolare della Jugoslavia, i Balcani si sono spostati più ad Occidente che ad Oriente, alla luce anche del caos geopolitico e della competizione russo-statunitense nel Vicino e Medio Oriente e nell’Europa orientale, nello spazio storico d’influenza russa. La situazione, alla luce della difficile integrazione europea di Serbia, Macedonia e Bosnia, potrebbe cambiare nuovamente.
Giuseppe Cappelluti, Tramonta il Turkish Stream, risorge il Nord Stream
Il Turkish Stream e il Nord Stream 2 sono parte della stessa strategia, finalizzata a rafforzare la presenza di Gazprom in Europa e ad aggirare un’Ucraina tendenzialmente inaffidabile. Le prospettive dei due gasdotti, però, sono molto diverse: se quelle del primo erano piuttosto incerte sin dall’inizio, il secondo, che gode del sostegno di Angela Merkel e della partecipazione di alcuni dei maggiori colossi europei della meccanica e degli idrocarburi, ha buone probabilità di vedere la luce. E, quando in Siria un caccia russo cadeva sotto i colpi di un missile turco, per i Paesi balcanici si profilava l’ennesima occasione perduta.
Ali Reza Jalali, Transizioni e problema etnico nell’area musulmana balcanica
La questione dello sviluppo di solide democrazie ai confini dell’Unione Europea è sempre stato uno dei temi che ha ossessionato maggiormente gli studiosi e i politici del vecchio continente negli ultimi decenni. D’altro canto, le complesse realtà balcaniche, soprattutto nei luoghi maggiormente a rischio per gli attriti etnico-confessionali, mettono in serio pericolo il percorso verso la democrazia occidentale intrapreso dai paesi dell’area. Se ciò è una realtà generale, lo è a maggior ragione per i paesi musulmani della regione balcanica, soprattutto per quelli di più recente formazione, alla ricerca di modelli che garantiscano la salvaguardia non solo dei diritti fondamentali dei cittadini, ma anche la pace e l’armonia all’interno di fragili Stati multietnici.
Enrico Galoppini, I Musulmani dei Balcani
La plurisecolare presenza islamica nei Balcani, data la sua “eccezionalità” rispetto alla maggioranza degli altri popoli d’Europa, rappresenta simultaneamente un rischio ed un’opportunità. La partita fondamentale si gioca sul tipo di Islam che prevarrà in nazioni come quella albanese o bosniaca. L’uso strumentale dei “genocidi” e il “vittimismo islamico”, sfruttati dai nemici della Russia, non fanno ben sperare, anche se il ruolo delle confraternite sufi potrebbe rappresentare un argine al filo-occidentalismo dell’Islam wahhabita e salafita d’importazione.
Yves Bataille, Il mosaico ex jugoslavo
Il risultato della guerra “umanitaria” intrapresa dall’Occidente contro la Jugoslavia e dello smantellamento della Federazione è sotto gli occhi di tutti: un mosaico di staterelli privi di potere reale o tenuti sotto tutela, alcuni dei quali sono stati assorbiti dalla NATO ufficialmente (Slovenia, Croazia) o ufficiosamente (Cossovo). Dappertutto, classi dirigenti mediocri e corrotte sottomesse ad interessi estranei o sottoposte a ricatto; saccheggio generale delle risorse, delle materie prime e delle imprese.
Lucio Baldelli, Etnogenesi del popolo serbo
Lo spazio balcanico è una tessera fondamentale del mosaico eurasiatico. In questa tessera, la presenza dei Serbi, attestata fin dai tempi antichi, è tutto fuorché marginale; l’origine di tale popolo, nella ridda delle ipotesi formulate, è uno dei capitoli più suggestivi e affascinanti nel libro della storia del nostro spazio continentale. L’Europa è quella che è anche grazie all’opera del popolo serbo nei secoli.
Marco Costa, La transizione geopolitica albanese
Gli ultimi due decenni della storia albanese costituiscono un caso paradossale tanto dal punto di vista ideologico quanto da quello geopolitico. Con la fine del comunismo nella sua variante enverista, che aveva segnato per quarant’anni la storia dell’Albania secondo un socialismo di stampo autarchico ed isolazionista, il “paese delle aquile” nel giro di pochi anni ha adottato una serie di riforme economiche ultraliberiste e ha capovolto le proprie direttrici geopolitiche con l’adesione alla Nato, avvenuta nel 2009. Tuttavia, nonostante la profonda frattura tra i due principali blocchi politici interni, costituiti da democratici e socialisti, paiono oggi aprirsi nuove prospettive eurasiatiche, sia per la ripresa dei rapporti economico-culturali con la Repubblica Popolare Cinese, sia per la lenta normalizzazione diplomatica con la Repubblica di Serbia, nel faticoso ma necessario tentativo di risolvere la vexata quaestio del Kosovo.
Andrea Turi, Geopolitica mediterranea di una colonia del debito
L’approccio alla crisi del debito sovrano di Atene ha sviluppato un discorso monodimensionale incardinato sulla capacità del Governo greco di far fronte (o meno) agli impegni contratti con la troika; l’analisi monofocale delle vicende greche non tiene di conto (se non in rari casi) delle conseguenze geopolitiche della crisi greca, perché, se questa ha limitato le possibilità di azione in politica interna e soprattutto economica, non ha intaccato il valore geostrategico di Atene sullo scacchiere del Mediterraneo orientale.
Ivelina Dimitrova, La Bulgaria: un “cucciolo degli USA”?
La Bulgaria, che fra tutti gli Stati aderenti al Patto di Varsavia era il più fedele satellite dell’Unione Sovietica, dopo il 1989 è diventata un “cucciolo degli Stati Uniti”, come la definì Jacques Chirac. I problemi più gravi che questo paese si trova oggi a dover affrontare sono il drastico decremento demografico, lo spopolamento delle aree rurali e montane e la mancata integrazione delle minoranze etno-linguistiche, spesso escluse dalla società civile per mancanza di un adeguato livello di istruzione.
Cristi Pantelimon, La Romania e le false alleanze strategiche
La Romania si trova in una situazione geopolitica ambigua, che potremmo considerare quella delle false alleanze. Essa privilegia la relazione strategica con le potenze atlantiste per difendersi da una presunta aggressività della Russia. Una visione di questo genere e la geopolitica che ne deriva non hanno fondamento nella situazione geostorica della Romania, stato continentale per definizione. Un’alleanza di questo tipo può funzionare per un certo periodo, ma sarà solo congiunturale e opportunistica. La stessa cosa si può dire anche per gli stati occidentali. L’unica strategia geopolitica a lungo termine che si fondi sulla storia del continente è la strategia eurasiatista, cioè un tentativo di consolidare il Grande Continente da Lisbona a Vladivostok.
Claudio Mutti, Da paese danubiano-balcanico ad avamposto atlantico
Alla collocazione atlantica e occidentale, imposta alla Romania dagl’interessi geostrategici statunitensi, la geografia e la storia contrappongono una ubicazione centrale, che è stata d’altronde sottolineata in vario modo dagli studiosi di geopolitica. A definire lo spazio geografico romeno non è l’Oceano Atlantico; sono, invece, i Carpazi, il Danubio e il Mar Nero.
Aldo Braccio, Un ricordo ottomano
Il paradigma romantico delle nazioni oppresse e risorte ha spesso pregiudicato una valutazione serena e obbiettiva della lunga (cinque secoli) presenza ottomana nei Balcani. La realtà della penisola balcanica nell’impero osmanlı è però quella di un’area ben integrata nell’ecumene imperiale, nel cui contesto fruì per lunghi periodi di pace e di una certa prosperità; l’istituzione dei millet assicurò il rispetto della molteplicità delle fedi religiose e delle etnie mentre il sistema agrario e la creazione di nuove città furono altri aspetti importanti del retaggio ottomano.
Lorenzo Salimbeni, La Grande Guerra nei Balcani
Le pistolettate di Sarajevo del 28 giugno 1914 avviarono la reazione a catena che condusse il mondo in quella che i contemporanei definirono la Grande Guerra. Nella narrazione dell’immenso conflitto e nella comprensione delle sue dinamiche diplomatiche, tuttavia, il fronte balcanico sembrò poi sparire del tutto, laddove giochi di alleanze, rivendicazioni territoriali, separatismi e indipendentismi furono ben più vivaci che sui fronti occidentale e orientale, condannati alla guerra di logoramento. Nodi irrisolti giunti dalle Guerre Balcaniche, lo scontro di interessi fra Impero Austro-Ungarico ed Impero Russo, l’agonia dell’Impero Ottomano, gli interessi divergenti degli Stati dell’Intesa in merito agli assetti da stabilire a conflitto terminato: a partire da tali problematiche si sprigionarono dinamiche che i Trattati di Pace lasciarono ancora irrisolte e sarebbero sfociate nelle vicende della Seconda Guerra Mondiale.
DOCUMENTI
Jovan Cvijić, Geografia umana della penisola balcanica
L’etno-geografo Jovan Cvijić fu uno dei sei esperti della delegazione jugoslava alla Conferenza della pace di Parigi, dove venne costituito il nuovo Stato slavo del sud.
L’etno-geografo Jovan Cvijić fu uno dei sei esperti della delegazione jugoslava alla Conferenza della pace di Parigi, dove venne costituito il nuovo Stato slavo del sud.
Vasile Gherasim, Eurasia spiritualis
Questo saggio di Vasile Gherasim, del quale viene qui tradotta la prima parte, è stato presentato da Cristian Pantelimon sul n. 4/2015 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.
Questo saggio di Vasile Gherasim, del quale viene qui tradotta la prima parte, è stato presentato da Cristian Pantelimon sul n. 4/2015 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.
INTERVISTE
Intervista a Márton Gyöngyösi
a cura di C. Mutti
a cura di C. Mutti
Márton Gyöngyösi, diplomato in scienze politiche ed economia politica, è deputato del Movimento per un’Ungheria Migliore (Jobbik) dal 2010. Dal 2014 è vicepresidente della commissione Esteri del Parlamento ungherese.
Intervista ad Arben Jaupaj
a cura di M. Costa
a cura di M. Costa
Arben Jaupaj, 43 anni, ha studiato storia e filologia all’Università di Tirana. Vive nella città turistica di Berat, ha lavorato come insegnante di storia e filosofia, lettore del Museo Storico cittadino, professore di antropologia culturale nell’Universita di Berati. Ha partecipato a diversi progetti culturali locali e nazionali in collaborazione con il Programma Culturale Svizzera in Albania, le Rete Albanesi di Toscana, la Fondazione Iraniana “Saadi Shirazi” a Tirana, l’Istituto Italiano di Cultura, l’Alleanza Francese, l’Università di New York a Tirana. Ha collaborato con gli uffici culturali presso le ambasciate cinese, spagnola e russa a Tirana. Attualmente è direttore della biblioteca pubblica di Berat e segue un dottorato di ricerca di storia contemporanea albanese presso l’Università di Tirana.
RECENSIONI
Manlio Dinucci, L’arte della guerra. Annali della strategia Usa/Nato (1990-2015), Zambon 2015 (Giacomo Gabellini)
Gennadij A. Zjuganov, La mia Russia. Ideologia del patriottismo russo, Anteo 2015 (Davide Ragnolini)
Fabio Falchi, Il Politico e la Guerra, Anteo 2015 (F. F.)
Emil Cioran, Apologie de la barbarie. Berlin-Bucarest (1932-1941), Editions de L’Herne 2015 (Yannick Sauveur)
Gennadij A. Zjuganov, La mia Russia. Ideologia del patriottismo russo, Anteo 2015 (Davide Ragnolini)
Fabio Falchi, Il Politico e la Guerra, Anteo 2015 (F. F.)
Emil Cioran, Apologie de la barbarie. Berlin-Bucarest (1932-1941), Editions de L’Herne 2015 (Yannick Sauveur)
domenica 27 marzo 2016
ISLAM E OCCIDENTE STORIA DI UN MALINTESO. Incontro pubblico in Emilia il 3 aprile (su prenotazione)
3 aprile 2016. Nei pressi di Sassuolo (Antica Dimora Sgaravatti) (Tra le province di Modena e Reggio Emilia)
INFO: sgaravatti@oikos-servizi.it (Bisogna prenotarsi)
ISLAM E OCCIDENTE STORIA DI UN MALINTESO
tra difesa dell’identità collettiva vs. apertura e confronto con altre culture
...
Per la costruzione e la difesa della propria identità, talvolta, si sono esaltati i propri valori e l’alterità rispetto a una cultura differente, alimentando antagonismi e conflitti. In altri momenti, invece, l’apertura, il dialogo hanno contribuito allo sviluppo economico e sociale. Ripercorriamo qualche tappa dello scontro/confronto tra le culture che fanno riferimento alle tre religioni monoteiste, cominciando a svelare qualche “malinteso”. Proviamo a contrapporre le ragioni della posizione della “difesa” rispetto a quella della “apertura”, giocando e recitando insieme.
Mattina (ore 10,00)
IL CONFRONTO/SCONTRO TRA OCCIDENTE E ISLAM: ESEMPI DI MALINTESI, NEL MEDIOEVO E ALL’INIZIO DELLA MODERNITÀ•
prof. Roberto Lambertini medievalista, professore Università di Macerata• prof. Ali Reza Jalali saggista, esperto di cultura islamica in Occidente e nei paesi musulmani• prof. Francesco Maria Feltri esperto ebraista• prof. Andrea Tabarroni filosofia medievale, Università di Udine
Pranzo (ore 13,00) Preparato e servito dallo chef Matteo Rosa
A seguire Un ensemble di musicisti si esibirà in un concerto eseguendo musiche di diverse provenienze e culture
Pomeriggio (ore 15,00) TAVOLA ROTONDA E DISCUSSIONE SUL TEMA Come avvicinare una memoria collettiva un po’ più… condivisa, sulla storia dei confronti/scontri tra le culture
CONCLUSIONE DELLA GIORNATA• Lucia Lanzarini (attrice) Leggerà un breve testo che introdurrà una discussione tra due gruppi (role playing) su due “situazioni storiche” raccontate nel corso della giornata: “Poteva e doveva andare diversamente?”
mercoledì 24 febbraio 2016
"Non è una sfida tra conservatori e riformisti, ma tra chi sta con gli oppressi e chi sta con gli oppressori": quando alcuni conservatori iniziano a dire quello che diceva Ahmadinejad
Ali Reza Jalali
Rasaei, deputato conservatore del Parlamento iraniano, estromesso dalla contesa del 26 febbraio 2016 |
Tra qualche giorno in Iran ci saranno due appuntamenti importanti, due tornate elettorali fondamentali: le elezioni legislative e il rinnovo del Consiglio degli Esperti. Non mi dilungo sulle funzioni di questi organi e sugli aspetti tecnici, visto che ne ho già discusso in altre sedi.
Quello che vorrei dire con questa breve nota è che si sta progressivamente concretizzando quello di cui parlava Ahmadinejad verso la fine del suo mandato presidenziale, ovvero il consolidamento di una grande coalizione di centro-destra-sinistra, un grande leviatano centrista, oltre le divisioni tra destra e sinistra, tra conservatori e riformatori, per far percorrere all'esperienza della Rivoluzione islamica dell'Iran la cosiddetta "via cinese", ovvero stabilizzazione istituzionale interna con un giro di potere limitato ad alcune aree specifiche (salvaguardia dell'aspetto esteriore della Repubblica Islamica), e al contempo una "distensione" con la c.d. comunità internazionale (ovvero USA e qualche paese europeo), finalizzata ad un mutamento della sostanza della Rivoluzione, con l'abbandono progressivo degli slogan rivoluzionari.
Il principale sentore di ciò è rappresentato dal fatto che ormai è chiaro a tutti come vi sia un generale passaggio dal c.d. conservatorismo all'area centrista (lo stesso vale anche per il campo riformatore) di molti personaggi politici importanti, primo tra tutti il leader dei conservatori in Parlamento, Ali Larijani.
Il progetto del grande centro della Repubblica Islamica di certo non è nuovo, e lo stesso dicasi per la "via cinese", se ne parlava già negli anni '90 sotto la presidenza Rafsanjani. Allora l'idea era quella di togliere il divieto costituzionale al limite dei due mandati consecutivi per il Presidente della Repubblica, sul modello del presidenzialismo di taluni paesi sudamericani, andando incontro quindi ad una presidenza Rafsanjani a vita.
Il progetto fu sponsorizzato, allora come oggi (parliamo del progetto del grande centro; la via cinese e il presidenzialismo a vita ne sono conseguenze dirette), da Rafsanjani, con l'assistenza di frange della destra e della sinistra.
Il progetto del grande centro versione 2.0, a mio modo di vedere, ha iniziato ad innescarsi durante gli anni del governo Ahmadinejad: gli eventi del 2009, le tensioni istituzionali, le accuse di deviazionismo, l'affare Mashai, la decisione della Consulta di bocciare quest'ultimo e Rafsanjani (secondo alcuni Rafsanjani sapeva benissimo di non poter partecipare alle elezioni, la sua presenza era solo una scusa da concedere ai giudici costituzionali per poter eliminare anche Mashai dalla contesa, facendo sembrare il tutto un gioco di equilibrio: in questo modo i giudici costituzionali potevano dire all'opinione pubblica, "siamo talmente imparziali che abbiamo fatto fuori dalla contesa presidenziale del 2013 sia l'ahmadinejadiano Mashai, sia l'anti-ahmadinejadiano Rafsanjani": non a caso il risultato elettorale di questa complessa macchinazione è stata la vittoria del centrista (ex conservatore riciclatosi baluardo dell'elettorato riformatore, rafsanjanista convinto) Hassan Rohani.
Ora siamo ad un altro momento dove le maschere sono cadute: Larijani (conservatore) è passato ormai chiaramente con l'asse Rohani-Rafsanjani. La Consulta (e le sue diramazioni locali), organo nel quale molti sono gli elementi autenticamente rivoluzionari, ma molti sono anche gli elementi che aderiscono al progetto del grande centro, ha fatto fuori dalla contesa elettorale (esattamente come aveva fatto nel 2013), sia alcuni elementi vicini a Rafsanjani, sia alcuni elementi avversi (il peso specifico di questi ultimi pare essere di gran lunga maggiore, infatti Hamid Reza Rasaei, deputato dell'area conservatrice tra i principali oppositori dell'asse Rohani-Rafsanjani, uno dei più noti parlamentari iraniani, è stato eliminato dalle elezioni di questo venerdi).
Proprio Rasaei dal suo sito internet esprime in modo riassuntivo il pensiero che ho voluto esprimere nelle righe precedenti: nella Repubblica Islamica dell'Iran non esiste uno scontro reale tra destra e sinistra, tra riformatori e conservatori, ma esiste una battaglia tra chi vuole normalizzare la Rivoluzione islamica dell'Iran (grande centro) e chi vuole rimanere aggrappato agli ideali (nei fatti e non solo a parole) dell'Imam Khomeini.
Rasaei nel suo sito parla di contrapposizione tra chi sostiene gli oppressi e chi sostiene gli oppressori, e personalmente mi compiaccio di ciò; peccato che quando Ahmadinejad (il quale ha confermato di non sostenere alcuna lista per le elezioni parlamentari) parlava di queste cose molti lo accusavano di deviazionismo, soprattutto tra i conservatori, molti dei quali oggi sono diventati sostenitori dell'asse Rafsanajni-Rohani.
lunedì 1 febbraio 2016
L'Iran verso il rinnovo del Parlamento (e non solo)
Il 26 febbraio 2016 si terranno le elezioni parlamentari in Iran, momento importante per valutare l'orientamento dell'elettorato persiano all'indomani dei viaggi in Europa del Presidente della Repubblica Rohani, dell'Accordo di Vienna e di tre anni di governo. Un test importante anche per l'esecutivo quindi, il quale dovrà presentarsi agli elettori l'anno prossimo per le presidenziali.
Ma in ballo c'è anche il rinnovo dell'Assemblea degli Esperti, organo istituzionale composto da una novantina di membri, esperti di materie religiose e di diritto islamico, che rimarranno in carica 8 anni. Tra i compiti di questo organismo, quello molto delicato della scelta della Guida della Rivoluzione, in caso di dipartita dell'attuale capo carismatico, l'Ayatollah Khamenei.
Vista l'età avanzata di quest'ultimo, molti analisti concordano che l'Assemblea eletta quest'anno, dovendo rimanere in carica per otto anni, con una buona probabilità avrà il compito di designare il successore di Khamenei.
Quindi, la tornata del 26 febbraio, che poi avrà una seconda fase in primavera, sarà molto importante per il futuro del paese persiano e per gli equilibri interni di potere.
Per quello che riguarda il rinnovo dell'assemblea legislativa, possiamo dire che sino a questo momento sembrerebbe profilarsi uno scontro tra due fazioni principali, ovvero da un lato un gruppo di potere guidato dal binomio Rohani-Larijani (quest'ultimo attuale capo dei conservatori in Parlamento e Presidente del potere legislativo stesso), con la figura dell'ex Presidente Rafsanjani come padrino, e dall'altro i conservatori che non si riconoscono più nel progetto, giudicato eccessivamente centrista e filo-governativo, di Ali Larijani.
In pratica avremmo a che fare con un nuovo assetto del bipolarismo iraniano, non più conservatori contro riformisti, ma conservatori contro centristi, con una emorragia dei membri della prima fazione verso la seconda, oggi egemone all'interno del potere esecutivo guidato da Rohani.
Qui rischiano di scomparire completamente dalla scena del prossimo Parlamento sia i riformisti, i quali candidati sono stati spesso oggetto di un severo giudizio da parte della Corte costituzionale di Teheran, che ha bocciato molte candidature di quell'orientamento, sia i conservatori vicini a Misbah Yazdi, di orientamento più radicale rispetto alla fazione di Larijani, i quali vedrebbero ridurre la propria presenza al minimo.
Per non parlare poi di eventuali sostenitori dell'ex Presidente Ahmadinejad, totalmente fuori dalla contesa, visto che lo stesso Ahmadinejad attraverso un comunicato ufficiale ha fatto sapere che non sosterrà alcuna lista.
In pratica, la maggioranza del prossimo Parlamento iraniano o sarà in mano all'asse Rohani-Larijani (ovvero una conferma dell'attuale maggioranza), o vedrà, ipotesi meno probabile, l'emergere di una nuova componente conservatrice, delusa dall'operato del governo e che considererebbe Ali Larijani una sorta di traditore della causa conservatrice.
Certamente la gente comune non sembra essere entusiasta del nuovo corso rohanista, soprattutto per una situazione economica che non tende a decollare, nonostante le promesse del governo; ma d'altro canto non sembra esserci, almeno per le prossime elezioni del Parlamento, una vera alternativa all'attuale classe dirigente.
domenica 10 gennaio 2016
Le cause del conflitto fra Iran e Arabia Saudita: intervista ad Ali Reza Jalali
http://www.opinione-pubblica.com/le-cause-del-conflitto-fra-iran-e-arabia-saudita-intervista-ad-ali-reza-jalali/
Le cause del conflitto fra Iran e Arabia Saudita: intervista ad Ali Reza Jalali
Sono i musulmani i peggiori nemici di loro stessi
La situazione in Medioriente, con lo scontro fra Iran e Arabia Saudita è oltremodo caotica. Ne parliamo con Ali Reza Jalali, intellettuale e opinionista iraniano.
1) Quali sono le cause del conflitto in corso? Quanto c’entra la religione, in tutto ciò, e quanto, invece, le scelte occidentali (Libia, Siria)? Quanto ha influito la disastrosa guerra in Yemen?
Il conflitto in questione tra Iran e Arabia Saudita ha radici profonde, rintracciabili nell’attrito geopolitico tra mondo arabofono e Persia.
Tale attrito storicamente presente si rafforza e si indebolisce a seconda delle situazioni, del contesto internazionale e dei governi al potere nei due contesti. In taluni casi tale attrito si rafforza, come nella fase storica attuale, grazie all’identitarismo confessionale (sciiti contro sunniti ecc.) o a quello etnico-linguistico (arabi contro persiani ecc.), in altri momenti invece si indebolisce, per via dell’emergere di altre priorità e preoccupazioni parzialmente comuni tra i due mondi, ad esempio grazie al problema dell’occupazione israeliana di alcune regioni del mondo islamico, sia sunnita che sciita (Palestina storica, sud del Libano, Golan, ecc.).
Nell’attuale attrito arabo saudita-iraniano, il fattore confessionale può essere un ottimo pretesto per radicalizzare la contesa e aggravare la situazione, gettando benzina sul fuoco dell’attrito geopolitico ancestrale, che è anche normale per due aree geografiche confinanti (basti pensare all’attrito italo-slavo, italo-tedesco, italo-francese, per quanto riguarda le diatribe nelle zone di confine), ma ciò non è la base del conflitto, è caso mai un ingrediente in più per esasperare gli animi. In fondo, la storia persiana è piena di guerre coi popoli che hanno vissuto a ovest dell’altopiano iraniano, anche prima dell’Islam.
Le politiche di una parte dei paesi occidentali hanno aggravato il caos, visto che l’instabilità si è accresciuta grazie agli interventi americani, inglesi e francesi. Inoltre il conflitto in Yemen certamente influenza il peggioramento delle relazioni bilaterali, alla luce del sostegno panarabo al governo di Hadi. In fondo, governi arabi eterogenei, islamisti-sunniti (Sudan), nazionalisti (Egitto), monarchie conservatrici wahabite (paesi della penisola araba), sostengono l’attuale campagna mediatica regionale anti-iraniana. Il problema sciiti-sunniti o ideologico è un pretesto, non la radice della diatriba.
2) Su quali alleati può contare l’Iran? Quali sono, invece, i Paesi che darebbero supporto concreto ai sauditi?
Se intende nella fase attuale, ovvero di guerra per interposta persona (proxy war), visto che dubito che ci sarà un confronto diretto tra iraniani e sauditi, l’Iran ovviamente può contare su talune “quinte colonne” nel mondo arabo, che per i suddetti motivi riguardanti una comune preoccupazione con gli iraniani, ovvero il primato del problema dell’occupazione straniera nella regione mediorientale, tendono a non seguire la politica dei loro “fratelli arabi”. Questi, in ordine di importanza dal punto di vista iraniano sono: Hezbollah, lo Stato baathista siriano, il governo e le milizie sciite irachene e gli houthi dello Yemen.
E’ da notare come – nonostante il dominio degli alawiti-sciiti in Siria, la base dell’esercito siriano sia sunnita. In fondo, negli anni ’80, l’Iraq di Saddam, muoveva guerra all’Iran, con una base militare sciita. Ribadisco, l’attrito sciiti-sunniti è secondario rispetto all’ancestrale attrito geopolitico arabo-iraniano. In fondo anche al tempo dello Shah vi erano problemi coi vicini arabi, sia di orientamento nazionalista, che di orientamento conservatore-monarchico (Ad esempio lo scontro per il dominio su alcune isole del Golfo Persico tra Iran e Emirati Arabi risale al tempo dello Shah).
Coi sauditi stanno sostanzialmente la maggioranza assoluta dei paesi arabi, così come accadde con Saddam negli anni ’80, dal Marocco alla penisola araba, fatta eccezione oggi per l’Algeria, mentre allora le eccezioni erano la Libia e la Siria.
3) Qual è la situazione interna (tenuta del Paese, qualità della leadership, economia, etc.) iraniana? E quale quella saudita? C’è il rischio di una «nuova Siria»?
In Iran la situazione è uguale a quella di qualche anno fa, ovvero tutto procede nella norma; il cambio di governo ha portato a un miglioramento delle relazioni con taluni attori occidentali, ma i cambiamenti sembrano più mediatici e di patina, che non sostanziali, tanto è vero che a oggi nessuna sanzione economica di rilievo è stata annullata.
L’unico cambiamento è forse l’afflusso maggiore di turisti, ma per il resto è tutto uguale a prima. In Arabia Saudita il regime non sembra intenzionato a far filtrare troppe notizie, soprattutto dalle zone calde del paese, a est, dove vivono gli sciiti perseguitati dal regime egemone wahabita. Per cui non possiamo sbilanciarci più di tanto sulla tenuta interna. Certamente il calo del prezzo del greggio e altri fattori sembrerebbero orientare l’analisi verso un deterioramento della situazione, ma non tale, almeno nel breve, da permettere di ipotizzare una crisi profonda.
4) Israele che ruolo ha nella vicenda, ammesso che ne abbia uno?
Israele ha un ruolo di primo piano, anche se ora come ora preferisce agire nell’anonimato. E’ chiara la vicinanza di Israele ai sauditi, se non altro in funzione anti-iraniana. Non vi è un solo giorno in cui i dirigenti di Tel Aviv non pongano enfasi sul ruolo di Teheran, nefasto dal loro punto di vista, riguardo la situazione mediorientale. Ricordate dichiarazioni anti-saudite del governo israeliano negli ultimi anni?
5) C’è la possibilità che lo scontro fra sunniti e sciiti divampi anche da noi? In fondo, ci sono molti immigrati in Europa.
Negli ultimi anni ci sono stati degli episodi preoccupanti, ricordo che in Belgio, qualche anno fa, ci fu un attentato anti-sciita condotto da elementi salafiti, che provocarono un morto. Ma, in generale, per via dell’esiguo numero di sciiti in Europa, penso che non vi saranno episodi gravi.
In fondo in Europa oltre il 90 percento dei musulmani è sunnita; le principali comunità islamiche in Italia sono originarie del Marocco, dell’Albania e di altri contesti, in ogni caso sunniti. Per i salafiti è più comodo massacrare sciiti in Libano, Siria, Iraq, Pakistan ecc. che non in Europa.
6) Secondo Lei, l’Italia quale atteggiamento dovrebbe adottare, posto che abbia l’autonomia necessaria per intraprendere una politica estera indipendente?
Se il governo italiano non fosse legato ad alleanze militari che limitano fortemente la sua autonomia, dovrebbe lavorare per cercare di, nel limite del possibile, invitare le parti al dialogo e alla pace.
Se ciò non fosse possibile, la logica imporrebbe un atteggiamento più intransigente con quei governi che sostengono il terrorismo o che non fanno abbastanza per contenerlo. In fondo, gli iraniani hanno mandato in Iraq e Siria truppe di terra contro l’ISIS.
I sauditi, oltre a creare alleanze militari buone per conferenze internazionali, da pubblicizzare sui media, cosa hanno fatto concretamente, nei principali campi di battaglia regionali, contro l’ISIS? Ma ovviamente questa è fantapolitica, in quanto, come ha detto bene lei, il governo italiano non è indipendente. Basti pensare alle folli sanzioni antirusse che hanno danneggiato l’imprenditoria italiana. Il governo lavora per altri interessi, fuori dall’Italia, e preferisce “rispettare” le alleanze internazionali che fare gli interessi della nazione e del popolo italiano.
7) Una riflessione libera sul fenomeno dell’islamofobia, che colpisce anche gente apparentemente in grado di comprendere come l’ISIS sia una creatura (anche) occidentale, e che i più saldi baluardi contro di esso si trovano proprio in Paesi a maggioranza musulmana (Siria e Iran).
Chi mi conosce sa bene che non amo i piagnistei. Esiste certamente una componente della politica mondiale e occidentale che ha un forte pregiudizio anti-islamico, e tale componente promuove una campagna contro l’Islam, per svariati motivi. Ma se i musulmani fossero più intelligenti non si lascerebbero strumentalizzare.
Esistono dei seri problemi nel mondo musulmano: se gli islamici stessi non li affrontano, e anzi lavorano per aumentare i problemi, è inutile lamentarsi della cosiddetta islamofobia. Certamente esiste una minoranza di musulmani consapevole di ciò, e che si muove nella direzione giusta, ovvero combattere il cancro che vi è all’interno del mondo musulmano stesso, per poi rivolgere critiche contro chi propaganda l’odio contro l’Islam dall’esterno. Ma fino a quando la maggioranza dei musulmani sarà facile oggetto della strumentalizzazione altrui, da musulmano, non posso prendermela con gli estranei: sono i musulmani stessi che pongono le basi della cosiddetta islamofobia.
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