Il prossimo 21 febbraio in Iran si terranno le elezioni per il rinnovo del
Majles, l’organo legislativo della Repubblica Islamica. Formato da 290 membri,
il Parlamento iraniano, oltre che detenere il compito di emanare le norme
ordinarie dello Stato, ha la delicata missione di supervisionare le attività
dell’esecutivo e se necessario, di mettere in stato d’accusa il Presidente
della Repubblica e promuovere la sfiducia dei Ministri.
La legislatura in dirittura d’arrivo si è caratterizzata - secondo molti
commentatori – per una certa connivenza con il governo Rohani; Ali Larijani,
Presidente dell’organo legislativo, è stato infatti accusato più volte di
essere diventato un elemento al servizio del governo, non adempiendo
correttamente al ruolo assegnatoli dalla Costituzione come severo arbitro
dell’attività governativa.
Non a caso i problemi economici a cui è soggetto il paese mediorientale da
qualche anno derivano in parte dal fatto che se da un lato Rohani non è
riuscito a mettere in atto le riforme promesse nel 2013, anno della sua entrata
in carica, d’altro canto nemmeno il Parlamento, soprattutto in questi ultimi
anni, ha cercato di correggere l’operato dell’esecutivo attraverso una
legiferazione oculata o una supervisione minuziosa dell’attività presidenziale
e ministeriale.
Rohani e Larijani, due dei principali esponenti di quella corrente
centrista e moderata che ha guidato la politica interna ed estera iraniana
negli ultimi anni, a parte le questioni inerenti la sicurezza nazionale e la
politica militare, sotto il diretto controllo dei conservatori e soprattutto
della Guida della Rivoluzione, venerdì 21 febbraio si troveranno davanti a un
vero e proprio referendum sulla propria coalizione.
In una certa misura infatti gli iraniani saranno chiamati a scegliere tra
alcune opzioni differenti: da un lato la continuità con la gestione attuale che
ha promesso moderazione in politica interna ed estera, ma che ha anche portato
il paese dopo diversi anni ad una inflazione del 50 percento e a una crescita
economica fortemente negativa, con una forte svalutazione della moneta
nazionale. Oggi in Iran, il ceto medio e la piccola borghesia si trovano a
dover affrontare un paradosso; i dirigenti politici da loro sostenuti hanno
limitato con le proprie politiche inconsistenti il potenziale economico di chi
in teoria dovrebbe promuovere la produzione industriale, commerciale ed
intellettuale del paese.
La seconda opzione è quella tradizionalista, legata ad una visione
intransigente rispetto ai valori della Rivoluzione del 1979. I sostenitori di
quest’ultima coalizione sono nel complesso minoritari a livello numerico, ma a
differenza dei loro antagonisti moderati, sono fortemente militanti, nel senso
che per loro ogni tornata elettorale assomiglia a una battaglia contro i
“traditori” della causa khomeinista.
I moderati non sempre si recano alle urne: quando lo fanno, a parte qualche
eccezione, promuovono la vittoria dei vari Rohani e Larijani.
Non a caso uno dei temi caldi delle prossime elezioni politiche è
l’affluenza alle urne. Da settimane ormai sui social network la piccola
borghesia iraniana promuove il boicottaggio delle elezioni, in segno di protesta
contro i conservatori e la Guida, accusati di essere dei dittatori e di non
avere a cuore le sorti dei cittadini iraniani. Uno dei temi più invocati è poi
l’abbattimento dell’aereo civile ucraino; infatti secondo la base elettorale
dei moderati, la fazione radicale che detiene il comando delle forze armate,
avrebbe in un primo momento mentito di proposito riguardo alle cause
dell’incidente, e solo per via delle pressioni internazionali i leader iraniani
sarebbero stati costretti a dire la verità, ovvero che sono stati i Pasdaran,
per sbaglio, a colpire il velivolo.
La decisione di boicottare le elezioni poi deriva anche dalla profonda
delusione per gli anni del governo Rohani, il quale aveva promesso profondi
cambiamenti: l’unica cosa che quest’ultimo ha ottenuto, come detto prima, è
stata una inflazione fuori dal comune e un’ulteriore radicalizzazione dello
scontro con l’occidente, anche per via della salita al potere di Trump negli
USA.
In ogni caso il risultato che ne consegue potrebbe essere la massiccia
astensione dei sostenitori dell’ala moderata della Repubblica Islamica; se ciò
fosse confermato il 21 febbraio, si spalancherebbero le porte del Parlamento
per i conservatori. Anche se non bisogna dimenticare una cosa importante: nelle
ultime tornate elettorali i radicali hanno sofferto molto per la mancanza di un
leader carismatico. Non a caso dalla fine del governo Ahmadinjad i centristi,
in coalizione con i riformatori e i reduci del fronte pro-Musavi del 2009,
hanno trionfato in quasi tutte le tornate, soprattutto nella capitale.
Da allora due contese presidenziali e una elezione legislativa ha visto
prevalere la coalizione Rohani-Larijani, soprattutto per l’incapacità dei
conservatori radicali nel gestire l’era post-Ahmadinejad.
Con l’esclusione di quest’ultimo dalla vita politica del paese per via dei
crescenti attriti tra l’ex Presidente e la Guida della Rivoluzione, i
conservatori hanno fatto molta fatica a trovare un capo carismatico che potesse
avere nel contempo due caratteristiche: essere un fedelissimo della Guida e
attirare le simpatie popolari, quanto meno dei ceti medio bassi.
Solo se la fazione intransigente riuscirà a colmare questo vuoto l’esito
elettorale potrà essere a loro favore, in caso contrario o ci sarà una vittoria
mutilata (motivata dall’assenteismo dei rivali e non per meriti propri,
vittoria che potrebbe essere politicamente delegittimante, per via della bassa
presenza alle urne), oppure avverrà quello che è accaduto dal 2013, ovvero la
massiccia presenza in extremis della borghesia alle urne elettorali, motivata
dal solito leitmotiv: tra i due mali (rivoluzionari intransigenti vs.
pragmatici), meglio scegliere quello minore.