di Ali Reza Jalali
Bisogna essere onesti: il voto amministrativo della scorsa
domenica in Turchia, segna una netta vittoria per il partito islamico moderato
e conservatore del premier Erdogan. Quest’ultimo veniva dato per spacciato,
travolto da una ondata di proteste popolari nell’ultimo anno e da scandali
anche di tipo sentimentale. Per non parlare poi del malumore che sembrava
riscuotere in patria l’eccessiva ingerenza turca negli affari della vicina
Siria, col sostegno erdoganiano alla ribellione anti-Assad, per non parlare
della deriva autoritaria del premier, volenteroso di una svolta
presidenzialista per la forma di governo turca, o comunque di una riforma che
aumentasse i poteri del governo contro il parlamento. Gli ultimi scandali poi
erano quelli riguardanti la censura dei social network, giudicati dal
premier “pericolosi”. Tutto ciò però non ha scalfito la popolarità del partito
di governo, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), una sorta di
Democrazia Cristiana turca. Ora, alla luce di questa vittoria elettorale,
grazie alla quale il partito di governo sembra aver preso circa il 40 percento
dei consensi su base nazionale, conquistando importanti città come Istanbul,
con una opposizione di centro-sinistra nettamente distanziata che vince solo
nelle roccaforti della Turchia occidentale, bisogna capire il perché di questo
risultato. Tra i meriti del governo turco c’è quello indubbiamente di aver
istaurato un sistema economico di successo, spesso invidiato nel resto del
Vicino Oriente, un modello che ha fatto crescere in modo costante il PIL turco,
abbassando anche l’inflazione. Se si considera che questo risultato è stato
ottenuto nello stesso periodo storico in cui i paesi dell’UE hanno visto un
brusco rallentamento economico, la situazione diventa ancora più favorevole per
Erdogan. Ma questo punto è stato riscontrato da tutti gli analisti che hanno
commentato l’esito elettorale turco. Un punto però è rimasto all’ombra, e
secondo me è quello saliente. La grandeur turca. Il popolo turco è molto
orgoglioso, e di certo non lo scopro io, nonostante la volontà costante di una
certa dirigenza turca negli ultimi cento anni di cancellare politicamente,
culturalmente e istituzionalmente i caratteri ottomani, e quindi imperiali
della Turchia, la popolazione, soprattutto quella della Turchia più profonda,
delle province, rimane saldamente legata alla cultura nazionale e, perché no,
tradizionale, quindi imperiale, ma anche religiosa. Erdogan, che di certo non è
uno stupido, è riuscito nell’impresa storica di far convergere sul suo partito
due tipi di elettorato, quello delle campagne e la borghesia emergente. Questi “tipi”
sociali però hanno un punto in comune, ovvero un forte senso nazionale, ma
anche religioso, che l’AKP è riuscito a interpretare bene. Il partito
principale dell’opposizione, ovvero il Partito Repubblicano del Popolo, ha una
retorica troppo “occidentale”, troppo “dirittumanista”, affinché la nazione
turca, patriottica e comunque religiosa, anche se nella sua grande maggioranza
non fanatica, possa essere affascinata da quel mondo; la base elettorale del
PRP rimane la borghesia europeista turca, gli intellettuali e gli ambienti per
certi aspetti più snob.
Per ciò che concerne la politica estera turca invece, è
inutile farsi illusioni e cadere nella demagogia. La Turchia è un paese membro
della NATO, sia che vada al potere Erdogan, sia che salgano al governo gli
altri. Punto. E’ forse pensabile una uscita dell’Italia dalla NATO, in base ad
un cambio di governo? Con Berlusconi, Prodi, Renzi o chiunque altro, è
possibile anche lontanamente immaginare un cambio netto della politica estera
italiana? Assolutamente no. La Turchia rimane e rimarrà un alleato strategico
degli USA nella regione. Ma c’è modo e modo di essere alleati. Nella prima
parte del decennio erdoganiano, la Turchia sembrava prendere le distanze dall’avventurismo
americano in Medio Oriente, basterebbe pensare alla opposizione turca rispetto
all’invasione dell’Iraq. Il parlamento turco, guidato dall’AKP, negò la
possibilità di una invasione di terra da nord, quindi dal territorio turco da
parte degli USA, irritando Bush che poi riuscì a invadere l’Iraq di Sadddam da
sud, dal Kuwait. Le tensioni diplomatiche con Israele, l’avvicinamento con la
Siria e l’Iran, furono cose che irritarono parecchio Washington, rendendo però
molto amato il premier turco nel mondo islamico. La primavera araba aveva
segnato però un brusco cambio nelle relazioni regionali della Turchia; all’improvviso
la politica del ministro degli esteri Davutoglu, “zero problemi coi vicini”, si
era mutata nella politica inversa: “mille problemi coi vicini”. Nel giro di un
paio d’anni, la Siria, l’Iraq e l’Iran erano diventati avversari e addirittura
iniziava una guerra per interposta persona (“proxy war”) tra Tehran e Ankara
per il dominio regionale. Erdogan a sostegno dei Fratelli Musulmani siriani e
della componente sunnita in Iraq, l’Iran con le forze di governo a Damasco e
Baghdad. Tutto ciò compiaceva molto l’amministrazione Obama, che così vedeva
nuovamente il Medio Oriente frammentato e potenzialmente mobilitato contro l’Iran,
nemico di sempre, soprattutto sotto il governo di Mahmoud Ahmadinejad, per non
parlare dell’ansia israeliana nei confronti dei gruppi sostenuti dall’Iran,
ovvero quelli libanesi guidati da Hezbollah e i palestinesi radicali, alleati
anche della Siria di Assad. Le proteste in Turchia e il fallimento del
tentativo erdoganiano di rovesciare Assad, per non parlare dello smacco subito
in Egitto con la caduta del filo-turco Morsi, avevano ridimensionato fortemente
la figura di Erdogan, ormai considerato da molti come un morto vivente,
politicamente parlando. Ciò aveva spinto ultimamente gli americani a smarcarsi
dalle posizioni turche, pensando che ormai la Turchia era matura per un
cambiamento di leadership; i turchi però domenica ci hanno detto che
evidentemente non la pensano così. La capacità degli islamici moderati al
potere di rinvigorire il sentimento nazionalista e religioso turco ha prevalso.
La Turchia e i turchi, vogliono insistere con un approccio di questo tipo; la
nostra speranza è che nel medio-lungo periodo, visto che nel breve sembra
difficile, la Turchia possa riacquistare a livello regionale quel ruolo che
aveva fino a prima della primavera araba, ovvero paese che promuove l’integrazione
regionale e non la conflittualità, paese che promuove il rafforzamento delle alleanze,
non la loro distruzione.
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