Ali Reza Jalali
In questi giorni la comunità
internazionale ha intrapreso uno sforzo per creare una grande coalizione con l’obiettivo
di combattere la minaccia globale più importante del momento, ovvero quel
gruppo estremista denominato Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. Il
movimento islamista ormai controlla da tempo alcune aree dei due paesi arabi,
ma il suo massimalismo rappresenta un pericolo per tutto il Medio Oriente – vi è
la possibilità concreta che l’emirato virtuale guidato dal califfo Al Baghdadi
possa espandersi – ma anche per l’Europa, visto che una parte dei miliziani che
combattono laggiù risiedono stabilmente in occidente.
Ovviamente si pone una
domanda: come è stato possibile che migliaia di estremisti islamici siano
partiti per la guerra santa dai paesi dell’UE, senza che nessuno abbia mosso un
dito tra le autorità, in un contesto dove ogni piccolo particolare, spesso
insignificante a livello della pubblica sicurezza – saluti romani, cori negli
stadi o slogan scanditi in piccole manifestazioni – vengono represse con una
rapidità spesso sconvolgente? Ma tralasciando questo fatto, rimane un punto
fondamentale e innegabile; lo Stato Islamico a cavallo tra Siria e Iraq è una
vera minaccia globale, una minaccia sorta però in un contesto specifico, ovvero
alcune guerre provocate da fattori esogeni e endogeni, come possono essere le
guerre del 2003 contro l’Iraq da parte degli USA e dell’occidente, guerra che
ha portato l’Iraq nel caos settario, favorendo implicitamente il radicalismo
religioso – l’ISIS ne è proprio una dimostrazione – per non parlare del
conflitto interno siriano, dovuto spesso a squilibri dovuti all’odio esistente
tra alcune componenti di quella società, ma di certo aggravato dall’intromissione
di attori stranieri volenterosi di rovesciare il governo di Damasco.
Questa
sommariamente la genesi e il retroterra da cui deriva l’ISIS, formazione radicale
composta da miliziani arabi, ma anche europei, turchi e altro ancora, che ha
dichiarato guerra al mondo intero. Ci sono anatemi contro tutti: i nemici sono
gli sciiti, i sunniti moderati, gli occidentali, i russi, i cristiani d’oriente
e chi più ne ha più ne metta. Si pone quindi il problema di come sconfiggere
questo gruppo, finanziato spesso da emiri e sceicchi residenti nei paesi arabi,
come quelli del Golfo Persico, senza dimenticare nemmeno l’appoggio della
Turchia, paese NATO, a questo gruppo molto attivo contro Assad e l’esercito
siriano. A oggi, chi ha combattuto contro questa formazione in Siria, sul
terreno, sono stati il governo siriano, le milizie popolari filogovernative,
gli Hezbollah libanesi e alcuni gruppi dell’opposizione siriana come certe
milizie curde o anche, in certi frangenti, milizie legate ai Fratelli Musulmani
o ad Al Qaida, in scontri legati al predominio in alcune zone fuori dal
controllo governativo.
Questi ultimi scontri però, tra vari oppositori di
Assad, alla fine hanno visto la vittoria dei miliziani di Al Baghdadi, che
hanno addirittura ridimensionato il ruolo di Al Qaida in Siria. Infatti c’è
stato un massiccio passaggio di qaidisti nelle file dell’ISIS. L’ISIS in
pratica è la versione aggiornata e migliorata di Al Qaida. Evidentemente l’ISIS
non avrebbe mai potuto acquisire questa potenza senza il sostengo economico e
militare dei paesi mediorientali interessati alla caduta del governo siriano e
di quello iracheno di Maliki, principalmente i paesi arabi del Golfo Persico e
la Turchia. Oggi però, almeno apparentemente, la comunità internazionale sembra
voglia combattere il fenomeno costituendo una coalizione di vari paesi, tra i
quali molti occidentali e alcuni mediorientali.
Il punto preoccupante è però
che nella lista della coalizione stilata recentemente troviamo nomi come quello
dell’Arabia saudita e dei paesi satelliti, ovvero i principali sponsor dell’ISIS,
mentre non fanno parte del gruppo i paesi che fino a oggi effettivamente hanno
contribuito a lottare contro gli estremisti islamici in Siria e Iraq, ovvero la
Siria stessa e l’Iran, da sempre sostenitore di Assad e di Hezbollah nella
guerra che ormai da diversi anni si combatte laggiù. In realtà gli occidentali
hanno cercato contatti con Damasco e Tehran, ma l’asse della resistenza, così
si chiama l’alleanza militare tra i due paesi, alleanza che include anche
Hezbollah, preferisce continuare la lotta all’ISIS e ai gruppi jihadisti dell’area
per conto proprio, non fidandosi degli USA e soprattutto dell’Arabia saudita e
degli altri stati arabi aderenti alla coalizione. Se i sauditi sono sinceri,
dovrebbero immediatamente smettere si finanziare i terroristi.
La Turchia, non
a caso, forse più coerentemente col suo progetto neo-ottomano di egemonia su
Iraq e Siria, ha deciso di non aderire alla coalizione, avendo probabilmente il
timore di essere coinvolta in una guerra che invece di combattere contro l’ISIS,
come si dice formalmente, possa portare più in là nel tempo a un progetto di
estromissione di Assad dal potere, cosa auspicato da Ankara, ma senza portare
la Siria nell’orbita erdoganiana, bensì in quella saudita; insomma, una
riedizione della situazione egiziana, dove i sauditi, sostenendo il golpe del
generale El Sisi, hanno di fatto eliminato l’influenza neo-ottomana dal Cairo.
Erdogan ha imparato bene che dei sauditi non si può fidare.
La coalizione
anti-ISIS al momento non è dissimile dalla coalizione anti-Assad, i famigerati “Amici
della Siria”, solo che a differenza di quella situazione il nemico non è più
presentato come Assad, ma i gruppi jihadisti. Inoltre allora vi era un problema
tecnico - non che a qualcuno interessi qualcosa ovviamente, è solo una
questione estetica; non c’era l’avvallo dell’ONU, mentre oggi c’è una
Risoluzione del CSNU che di fatto apre la strada, anche sotto il profilo del
diritto internazionale, a un’azione militare nei luoghi in cui si trova l’ISIS
(quindi non solo in Iraq, ma anche in Siria). Infatti per rimanere nell’alveo
del diritto internazionale, non vi è la necessità di un avvallo della Siria per
i raid contro i jihadisti, visto che la Risoluzione dell’ONU ha forza attuativa
così come è. Insomma, dove il diritto internazionale non permetteva un
intervento in Siria contro Assad, oggi lo permette contro l’ISIS. Se poi si
nota che chi finanzierà la presunta azione contro l’ISIS (paesi arabi), sono
gli stessi che caldeggiavano l’intervento contro Assad, allora i conti tornano.
Altro che guerra all’ISIS. Magari ci fosse una vera lotta contro l’estremismo,
quella lotta condotta sul campo dal governo siriano lungo questi terribili anni
di “primavera araba” che dovevano portare pace e democrazia nella regione.
Questa
è solo una riedizione degli “Amici della Siria”, meno partecipata, vista la
defezione di alcuni importanti ex membri, come Turchia e Egitto. Oggi come
allora l’obiettivo è entrare in Siria, non solo per mezzo dei gruppi
anti-Assad, moderati o estremisti che siano a Damasco poco importa, ma con una
coalizione internazionale, in pratica il famoso intervento sul modello libico
di cui si è parlato tanto in questi anni, con l’obiettivo di eliminare sia le
frange meno malleabili degli oppositori, sia il governo centrale, riproponendo
il vecchio progetto che avevamo denunziato sin dall’inizio nel 2011-2012, cioè
quello di rompere l’asse Damasco-Tehran. Sarà un caso che questi due paesi, in
prima linea contro l’ISIS, non partecipano alla coalizione degli “Amici della
Siria” versione estate 2014? Gli USA e l’Arabia saudita, grazie a un sostengo
implicito o esplicito che fosse, all’avanzata jihadista in Iraq, coinvolgendo
direttamente Baghdad nella diatriba, hanno complicato notevolmente la
situazione sul campo all’asse della resistenza e ora si propongono di fermare
il jihadismo. In pratica, con questa scusa, si vuole porre le basi per eliminare
gli unici che il jihadismo lo hanno combattuto veramente, Assad e alleati.
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