lunedì 31 marzo 2014

La vittoria del partito di Erdogan alle amministrative turche

 
 
di Ali Reza Jalali
 
 
Bisogna essere onesti: il voto amministrativo della scorsa domenica in Turchia, segna una netta vittoria per il partito islamico moderato e conservatore del premier Erdogan. Quest’ultimo veniva dato per spacciato, travolto da una ondata di proteste popolari nell’ultimo anno e da scandali anche di tipo sentimentale. Per non parlare poi del malumore che sembrava riscuotere in patria l’eccessiva ingerenza turca negli affari della vicina Siria, col sostegno erdoganiano alla ribellione anti-Assad, per non parlare della deriva autoritaria del premier, volenteroso di una svolta presidenzialista per la forma di governo turca, o comunque di una riforma che aumentasse i poteri del governo contro il parlamento. Gli ultimi scandali poi erano quelli riguardanti la censura dei social network, giudicati dal premier “pericolosi”. Tutto ciò però non ha scalfito la popolarità del partito di governo, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), una sorta di Democrazia Cristiana turca. Ora, alla luce di questa vittoria elettorale, grazie alla quale il partito di governo sembra aver preso circa il 40 percento dei consensi su base nazionale, conquistando importanti città come Istanbul, con una opposizione di centro-sinistra nettamente distanziata che vince solo nelle roccaforti della Turchia occidentale, bisogna capire il perché di questo risultato. Tra i meriti del governo turco c’è quello indubbiamente di aver istaurato un sistema economico di successo, spesso invidiato nel resto del Vicino Oriente, un modello che ha fatto crescere in modo costante il PIL turco, abbassando anche l’inflazione. Se si considera che questo risultato è stato ottenuto nello stesso periodo storico in cui i paesi dell’UE hanno visto un brusco rallentamento economico, la situazione diventa ancora più favorevole per Erdogan. Ma questo punto è stato riscontrato da tutti gli analisti che hanno commentato l’esito elettorale turco. Un punto però è rimasto all’ombra, e secondo me è quello saliente. La grandeur turca. Il popolo turco è molto orgoglioso, e di certo non lo scopro io, nonostante la volontà costante di una certa dirigenza turca negli ultimi cento anni di cancellare politicamente, culturalmente e istituzionalmente i caratteri ottomani, e quindi imperiali della Turchia, la popolazione, soprattutto quella della Turchia più profonda, delle province, rimane saldamente legata alla cultura nazionale e, perché no, tradizionale, quindi imperiale, ma anche religiosa. Erdogan, che di certo non è uno stupido, è riuscito nell’impresa storica di far convergere sul suo partito due tipi di elettorato, quello delle campagne e la borghesia emergente. Questi “tipi” sociali però hanno un punto in comune, ovvero un forte senso nazionale, ma anche religioso, che l’AKP è riuscito a interpretare bene. Il partito principale dell’opposizione, ovvero il Partito Repubblicano del Popolo, ha una retorica troppo “occidentale”, troppo “dirittumanista”, affinché la nazione turca, patriottica e comunque religiosa, anche se nella sua grande maggioranza non fanatica, possa essere affascinata da quel mondo; la base elettorale del PRP rimane la borghesia europeista turca, gli intellettuali e gli ambienti per certi aspetti più snob.
 
 
 
 
Per ciò che concerne la politica estera turca invece, è inutile farsi illusioni e cadere nella demagogia. La Turchia è un paese membro della NATO, sia che vada al potere Erdogan, sia che salgano al governo gli altri. Punto. E’ forse pensabile una uscita dell’Italia dalla NATO, in base ad un cambio di governo? Con Berlusconi, Prodi, Renzi o chiunque altro, è possibile anche lontanamente immaginare un cambio netto della politica estera italiana? Assolutamente no. La Turchia rimane e rimarrà un alleato strategico degli USA nella regione. Ma c’è modo e modo di essere alleati. Nella prima parte del decennio erdoganiano, la Turchia sembrava prendere le distanze dall’avventurismo americano in Medio Oriente, basterebbe pensare alla opposizione turca rispetto all’invasione dell’Iraq. Il parlamento turco, guidato dall’AKP, negò la possibilità di una invasione di terra da nord, quindi dal territorio turco da parte degli USA, irritando Bush che poi riuscì a invadere l’Iraq di Sadddam da sud, dal Kuwait. Le tensioni diplomatiche con Israele, l’avvicinamento con la Siria e l’Iran, furono cose che irritarono parecchio Washington, rendendo però molto amato il premier turco nel mondo islamico. La primavera araba aveva segnato però un brusco cambio nelle relazioni regionali della Turchia; all’improvviso la politica del ministro degli esteri Davutoglu, “zero problemi coi vicini”, si era mutata nella politica inversa: “mille problemi coi vicini”. Nel giro di un paio d’anni, la Siria, l’Iraq e l’Iran erano diventati avversari e addirittura iniziava una guerra per interposta persona (“proxy war”) tra Tehran e Ankara per il dominio regionale. Erdogan a sostegno dei Fratelli Musulmani siriani e della componente sunnita in Iraq, l’Iran con le forze di governo a Damasco e Baghdad. Tutto ciò compiaceva molto l’amministrazione Obama, che così vedeva nuovamente il Medio Oriente frammentato e potenzialmente mobilitato contro l’Iran, nemico di sempre, soprattutto sotto il governo di Mahmoud Ahmadinejad, per non parlare dell’ansia israeliana nei confronti dei gruppi sostenuti dall’Iran, ovvero quelli libanesi guidati da Hezbollah e i palestinesi radicali, alleati anche della Siria di Assad. Le proteste in Turchia e il fallimento del tentativo erdoganiano di rovesciare Assad, per non parlare dello smacco subito in Egitto con la caduta del filo-turco Morsi, avevano ridimensionato fortemente la figura di Erdogan, ormai considerato da molti come un morto vivente, politicamente parlando. Ciò aveva spinto ultimamente gli americani a smarcarsi dalle posizioni turche, pensando che ormai la Turchia era matura per un cambiamento di leadership; i turchi però domenica ci hanno detto che evidentemente non la pensano così. La capacità degli islamici moderati al potere di rinvigorire il sentimento nazionalista e religioso turco ha prevalso. La Turchia e i turchi, vogliono insistere con un approccio di questo tipo; la nostra speranza è che nel medio-lungo periodo, visto che nel breve sembra difficile, la Turchia possa riacquistare a livello regionale quel ruolo che aveva fino a prima della primavera araba, ovvero paese che promuove l’integrazione regionale e non la conflittualità, paese che promuove il rafforzamento delle alleanze, non la loro distruzione.     

sabato 29 marzo 2014

La Russia leader dei paesi anti-atlantici e la nascita di un G8 alternativo

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di Giuliano Peretti
 
La Russia ha vinto. Putin ha vinto.
Il discorso lucidissimo del Presidente alla Duma di Stato della scorsa settimana sulla “questione Crimea” ha chiarito un concetto fondamentale: l’Europa e l’Unione Europea sono i soggetti passivi dello scacchiere internazionale e non posseggono risposte adeguate contro la propria disgregazione politica. Intere regioni scelgono di fuggire dall’Euro e dall’Unione adottando la visione politica del gigante euro-asiatico, invertendo il processo di “allargamento” caro alle ambizioni dell’UE. E mentre ad est Putin e l”intellighentia russa pongono le basi per la transizione finale verso un mondo veramente multipolare, il tramonto dell’Occidente appare ormai come un fatto storico.
 
Putin vince perché possiede lui solo un’articolata “geosofia” , cioè una comprensione profonda di tutto ciò che accade intorno a lui e alla Russia. Comprende, senza dubbio, che l’Eurasia non è soltanto un capriccio o una fantasia degli analisti, ed è invece uno spazio vitale, uno spazio naturale, l’emanazione orizzontale di ciò che il Mediterraneo fu verticalmente per una delle più grandi potenze della storia.
 
 
La forza geostrategica della Russia
La Siria, l’Iran, lo hanno confermato: la forza geostrategica della Russia in Asia è cresciuta a grandi passi e si è rivelata in tutta la sua dimensione nella difesa dei propri alleati con una determinazione, politica e diplomatica, che fin ora solo gli Stati Uniti avevano osato in campo internazionale. Il veto al Consiglio di Sicurezza ONU contro un attacco diretto al governo siriano di Bashar Al-Assad, e la difesa dell’Iran contro le promesse di guerra di Israele e USA,  sono stati fondamentali per la preservazione di una pace sofferta, dove nel caso contrario, un focolaio di guerra avrebbe incendiato in modo devastante tutto il Medio Oriente.

 Volendo poi inquadrare l’annessione della Crimea in un piano strategico più ampio potremmo dire che una delle determinanti per la costituzione di una nuova polarità sia proprio il tentativo di ricostruzione dello spazio post-sovietico. Putin sembrerebbe aver interpretato in maniera ottimale il rinato fascino per i fasti dell’ “impero sovietico” e di quello russo, ricostruendo un’identità nazionale basata sui principi di patria, internazionalismo e risolutezza.
 
La forza geoeconomica della Russia
 
Nella ricostruzione di questo spazio, che ben si sposa con l’idea di “integrazione euroasiatica”, si inserisce l’unione doganale ed economica con la Bielorussia e il Kazakistan, paese-guida dell’altopiano turcico, che per merito del suo presidente Nazarbayev ha coinvolto nell’accordo le nazioni del Kirghizistan, dell’Uzbekistan e del Tagikistan. Porre le repubbliche del Turkestan sotto la propria protezione è un segnale forte della leadership interregionale del Cremlino. È superfluo dire che la Bielorussia, che punta ad un futuro ricongiungimento con la Russia, abbia con essa un rapporto privilegiato e che l’Unione economica Euroasiatica sia l’evoluzione della precedente Unione Russia-Bielorussia.

 Ma la rinnovata potenza economica russa, che ha risollevato il paese dalla disastrosa Era-Eltsin, passa come è noto dalla grande esportazione di gas naturale, per il quale l’Europa è quasi totalmente dipendente da Mosca. Ed è proprio per tutelare i propri interessi economici, e al tempo stesso per contrastare lo strapotere economico dei paesi produttori di petrolio dell’OPEC, che negli ultimi anni Vladimir Putin, e altri leaders come Hugo Chavez e Mohammed Ahmadinejad hanno sostenuto la collaborazione dei loro paesi all’interno del GECF (Gas Exporting Country Forum), l’organizzazione dei paesi esportatori di gas. Russia, Venezuela ed Iran. Tre paesi politicamente ed economicamente affini.
 
La forza geopolitica della Russia
 
Ma non solo. L’Iran ormai è un alleato strategico per la Russia sotto tutti i punti di vista. Entrambi sono stati e sono tutt’ora i maggiori sostenitori di Assad e del suo diritto a governare la Siria. Tramite l’Iran la Russia mantiene i suoi rapporti con il Medio Oriente, mentre il Venezuela è stato, per voce del compianto presidente Chavez, il collegamento tra Putin e l’America Latina apertamente critica e in contrasto con il nordatlantismo. Un multipolarismo che non sia “imperfetto” ma che superi questa fase di transito verso un assetto definitivo ed efficace ha sicuramente bisogno che l’America Latina, più specificatamente l’Alleanza Bolivariana per le Americhe, giochi il suo ruolo nel futuro scenario geopolitico e che il Bolivarismo affianchi l’Euroasiatismo dei paesi dell’Heartland (Mackinder docet) come uno dei nuovi riferimenti ideologici del terzo millennio. Se nell’Euroasiatismo diviene centrale il tema di una Restauratio imperii dei confini naturali e spirituali di una regione, il riscatto sociale e l’autonomia sono la base, terrena ma per niente scontata, del Bolivarismo, che ha trasformato il SudAmerica da un povero continente coloniale sfruttato e depredato ad una potenza emergente fortemente identitaria. In questo contesto il Brasile ha potuto guadagnarsi il titolo di gigante latino e quello di sedersi al tavolo economico dei BRICS con Russia, India, Cina e SudAfrica; l’Argentina di Cristina Kirchner ha offerto a Putin la possibilità d’installazione di basi russe nel suo territorio. Siamo evidentemente ad una svolta. In uno di quei periodi storici in cui l’occasione è ghiotta per sovvertire e ristabilire gli equilibri del mondo. All’indomani dell’esclusione della Russia dal G8 come sanzione per la vicenda che riguarda la Crimea, il saggista iraniano residente in Italia.

Ali Reza Jalali ha avanzato l’ipotesi e la provocazione che la Russia formi un G8 alternativo insieme agli stessi paesi dei BRICS che sia a sua volta anche un potenziamento del NAM, il movimento dei paesi non-allineati di cui l’Iran fu proprio il fondatore e che ora detiene la segreteria generale.
I BRICS piú l’Iran dunque, e forse l’Argentina e forse una potenza nucleare come il Pakistan. Senza dimenticarsi dell’esistenza di un forum di cooperazione come l’Organizzazione di Shangai costituito nel 2001 dalla Cina in aggiunta ai paesi dell’attuale Unione Economica Euroasiatica tranne la Bielorussia (Russia e i 4 paesi del Turkestan) e di cui Afghanistan, Pakistan, Iran e Mongolia svolgono il ruolo di osservatori. I temi centrali del gruppo spaziano da quello energetico a quello nucleare fino alla questione di una cultura condivisa. D’altronde, le sinergie tra le diverse organizzazioni istituzionali nei vari campi d’azione concessi (economico, militare, politico, culturale) sono un’arma di grande prospettiva per la definizione di un’ Area che faccia da contrappeso al pensiero atlantista.
 
Nonostante le ultime vittorie elettorali riportate in Europa da movimenti euro-scettici, Putin non crederà di certo ad un’asse Parigi-Berlino-Mosca come sognano i nazionalisti francesi, nè è tanto sciocco da credere che la storia lo giudicherà meno severamente di quanto non farà con i suoi “partners occidentali”. Ma Putin, i russi, e anche noi, sappiamo che la creazione di un mondo multipolare, passando anche per conflitti e strategie, è l’unica chiave per una pace duratura, e l’unico contropotere contro la guerra illimitata delle forze atlantiste e liberali e la loro ambizione di un dominio globale.
 

domenica 16 marzo 2014

La ripartizione del potere elettorale in Iran e l'eventuale perdita di consenso del governo Rohani

La ripartizione del potere elettorale in Iran e l'eventuale perdita di consenso del governo Rohani
di Abdolreza Davari



 



Nella Repubblica Islamica dell'Iran ci sono 4 poli che detengono il potere: il clero, gli "hezbollahi", i tecnocrati e il popolo comunemente inteso. Ognuno di questi settori ha dei rappresentanti nelle istituzioni, ma questa rappresentanza è variabile.
Il clero, ovvero i "marja", le "fonti", i chierici di più alto grado, per motivi religiosi detengono un enorme potere spirituale. Questi chierici, grandi ayatollah, storicamente si sono legati alla figura di Rafsanjani.
Gli "hezbollahi", ovvero la base militante del regime rivoluzionario-islamico, cioè i pasdaran e il loro apparato, i chierici giovani e altri militanti; hanno sempre avuto come punto di riferimento la guida, l'ayatollah Khamenei. Una parte minoriataria dei grandi ayatollah invece di sostenere Rafsanjani ha sostenuto Khamenei.
I tecnocrati, ovvero la borghesia delle grandi metropoli, soprattutto Tehran, non aveva veri rappresentanti a livello istituzionale, almeno fino a Khatami. Oggi, per via dell'allenza tattica Rafsanjani-Khatami, i tecnocrati e la borghesia iraniana, normalmente filo-occidentale, si riconoscono in Rafsanajni.
Il popolo, ovvero l'iraniano medio, a parte i primissimi anni della Rivoluzione, caratterizzati da una mobilitazione di massa a favore della guida, l'imam Khomeini, non ha avuto rappresentanti stabili nelle istituzioni. Questo elettorato, per così dire, "qualunquista", è decisivo ai fini della vittoria di un partito o un candidato.
Con le elezioni a presidente di Rafsanjani nel 1989, una vittoria con il 90 percento dei consensi, si era creata una sinergia sui generis tra i quattro poli suddetti. Il risultato elettorale plebiscitario conferma ciò; un consenso di questo tipo è possibile solo con la convergenza di tutto l'elettorato, in pratica tutti i "tipi" di iraniani, hanno votato per Rafsanjani.
Nel 1993 il consenso di Rafsanjani, uscito rieletto, si era affievolito nettamente. Ciò per via del fatto che una parte degli "hezbollahi" e del popolo si era disaffezionato al presidente, soprattutto per la sua politica economica troppo liberista, almeno in paragone a quello che era stato l'Iran nel periodo bellico 1980-1988, con una forte mano nazionalista e "socialista", che aveva causato molta inflazione e diseguaglianze. 
Con l'avvento di Khatami nel 1997, si era formato un nuovo asse: tecnocrati-popolo-una parte del clero. Questo asse che per motivi diversi aveva sostenuto Khatami, fu la base dell'imponente vittoria del leader riformatore.
La vittoria elettorale di Ahmadinejad nel 2005 invece era il frutto dell'appoggio dell'asse popolo-hezbollahi. Si opponevano a questo asse, come sostenitori di Rafsanjani, sconfitto da Ahmadinejad, l'asse clero-tecnocrati.
Nel 2009 questa situazione è rimasta stabile, con la differenza che la maggiore partecipazione popolare alle elezioni ha fatto aumentare sia i voti di Ahmadinejad, sia quelli dell'uomo di Rafsanjani e Khatami, ovvero Mir Hossein Musavi, ma senza cambiare la percentuale dei consensi dei due "partiti": 60 percento contro 30 percento.
Nel 2013 Rafsanjani è riuscito a riprendere il controllo della situazione, facendo confluire nella persona di Rohani, i voti del popolo, dei tecnocrati e del clero. Dall'altra parte gli hezbollahi si sono divisi in più candidati, non riuscendo così ad arrivare al ballottaggio, anche se per pochi voti.
L'approccio giudicato troppo filo-occidentale di Rohani farà in modo che le divergenze con il fronte hezbollahi aumentino, per non parlare di una grande delusione popolare per le politiche economiche approssimative, che probabilmente nel giro dei prossimi anni porteranno a una nuova ondata inflazionistica. La delusione ci sarà anche tra i tecnocrati, attenti alle aperture nell'alveo delle libertà individuali e della pacificazione con l'occidente; in questi ambiti Rohani non riuscirà probabilmente a fare molto, deludendo molto la borghesia iraniana. In questo modo Rohani perderà molto del suo consenso, arrivando spompato alle elezioni del 2017. Ed è proprio per questo che il governo sta cercando in tutti i modi di aprire agli investimenti occidentali, cercando così in un colpo di salvare due tipi di sostenitori: i tecnocrati interessati a buone relazioni con gli occidentali e il popolo, che spera così di vedere migliorata la situazione economica del paese. Dobbiamo vedere se l'occidente è veramente interessato ad aprire all'Iran - fino adesso ci sono state solo parole, ma di grandi investimenti nemmeno l'ombra - e se quindi Rohani, attraverso il "doping" degli investimenti stranieri, riuscirà a salvarsi dalla bocciatura elettorale nel 2017. Staremo a vedere.




Abdolreza Davari è esperto di politica ed economia, collaboratore dell'ex presidente iraniano Ahmadinejad; il testo è la traduzione rielaborata, ma comunque attinente al significato complessivo, dal persiano, curata da Ali Reza Jalali, di un post su facebook dell'intellettuale iraniano

venerdì 14 marzo 2014

RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA

E' stato pubblicato il nuovo numero della rivista di geopolitica Eurasia, il primo del 2014, dedicato all'Unione Euuropea. All'interno un articolo di Ali Reza Jalali




RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA


RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA
RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

EDITORIALE


IL RITORNO DELL’ANTICA FANCIULLA
di Alessandra Colla

Risucchiata in un Occidente che non le appartiene più, l’Europa rischia di morire soffocata da un’ideologia troppo vecchia e incapace di offrirle le risposte adeguate ad affrontare le sfide del nuovo inizio millennio. Il XX secolo ha visto il trionfo dello strapotere occidentale: se vuole non soltanto sopravvivere, ma riaffermare la propria concreta dimensione storica, politica e culturale, l’Europa deve impegnarsi per evitare che il XXI possa diventare realmente il “secolo americano”.

L’UE: EVOLUZIONE, ISTITUZIONI, RAPPORTO CON GLI STATI MEMBRI
di Ali Reza Jalali

Il processo di integrazione europea ha visto alti e bassi, ma si è ormai consolidato, sbarrando la strada ad anacronistici ritorni al passato. Il problema del deficit democratico e la carenza di sovranità però invitano ad una seria riflessione sulle istituzioni europee, spesso poco vicine alle istanze dei cittadini. Il ruolo del parlamento europeo poi è troppo marginale, conferendo così molto potere agli organi comunitari non legittimati democraticamente. In tutto ciò i limiti alla sovranità militare e politica europea rispetto agli USA rendono l’Unione Europea molto vulnerabile.

DALL’IMPOTENZA AL RINNOVAMENTO
di Alain de Benoist

Nonostante il fallimento dell’Unione Europea, dovuto al fondamentale difetto di volontà politica, la costruzione dell’Europa rimane più necessaria che mai, per consentire a popoli europei troppo a lungo divisi da guerre e conflitti o rivalità di vario genere di riprendere consapevolezza della loro comune appartenenza ad una stessa area di cultura e di civiltà e di assicurarsi un destino comune, senza doversi mai più contrapporre gli uni agli altri. L’autore guarda con attenzione alla proposta di creare in seno all’Unione una struttura di approfondimento, inizialmente centrata sullo spazio renano, che dovrebbe successivamente estendersi a tutti gli altri Paesi disposti a condividerne le regole.

STATI UNITI D’EUROPA O EUROPA DEGLI STATI UNITI?
di Spartaco A. Puttini

L’Europa e un suo possibile processo unitario sono da tempo al centro del discorso pubblico e tutto lascia pensare che ci resteranno a lungo. A questa attenzione ritrovata per la questione europea ha contribuito sicuramente la crisi in cui è precipitato il processo d’integrazione dell’Unione europea, crisi che diviene sempre più evidente ad una fascia progressivamente più ampia di persone e che contribuisce a rimettere in discussione i pilastri su cui finora la Ue è stata edificata. Perché di fatto si è affermato l’equivoco che l’Europa si limiti all’attuale Unione europea o, peggio ancora, all’Unione monetaria europea, la così detta Eurozona. Un equivoco pericoloso per la sue implicazioni geopolitiche, un equivoco che limita lo spettro di possibilità che nell’attuale, difficile, congiuntura internazionale si schiude potenzialmente davanti ai popoli europei. La prima questione da affrontare riguarda pertanto la definizione dell’Europa e del suo limes.

EUROPEISMO CONTRO EUROATLANTISMO
di Fabio Falchi

Che l’euroscetticismo abbia messo salde radici in tutta Europa non può sorprendere tenendo conto degli squilibri che si sono generati con l’introduzione dell’euro. Né può sorprendere che tali squilibri vengano considerati come la prova del fallimento dell’Unione Europea. Tuttavia, prendendo in esame la questione dell’unificazione dell’Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si può facilmente mostrare che già De Gaulle (al di là dei suoi evidenti “limiti” ideologici e politici) aveva compreso l’importanza di distinguere l’europeismo dall’euroatlantismo. Una differenza oggi più che mai decisiva per l’indipendenza e la prosperità dell’Europa.

EUROPA NON SOVRANA: IL RUOLO DELLA COMMISSIONE
di Aldo Braccio

La Commissione Europea ha un ruolo essenziale all’interno del sistema dell’UE, in termini sia propositivi che di controllo; se la sua funzionalità non è in discussione, essa rispecchia però, nelle sue linee d’azione, l’incapacità politica e la dipendenza dai centri di potere finanziari dell’istituzione europea. Occorrerebbe pertanto una riconversione in positivo delle energie della Commissione, e in questo senso un primo passo potrebbe essere costituito da un serio e diffuso dibattito/approfondimento sulle sue prerogative e soprattutto sull’azione concretamente svolta; l’elezione popolare dei commissari – in alternativa alla mera nomina da parte dei governi nazionali – potrebbe favorire l’uscita dal cono d’ombra del disinteresse e della mancanza d’informazione e permettere la candidatura di personalità non necessariamente allineate ai dettami della finanza cosmopolita.

LA GERMANIA E LA TENTAZIONE DELL’EUROPA A DUE VELOCITÁ
di Stefano Vernole

Il dibattito sull’Europa viene coscientemente indirizzato sulle opzioni Euro sì – Euro no e su un ipotetico predominio tedesco. La Germania, che certamente è stata abile a sfruttare le congiunture economiche determinate dall’unificazione europea, si trova ora alle prese con un dilemma: o assumere un vero ruolo guida oppure continuare a subire un processo di demonizzazione scatenato sia all’interno che all’esterno del continente europeo. La tentazione di “spaccare” in due l’Europa potrebbe essere la via d’uscita più “comoda”, ma gli interrogativi sulla sua efficacia rimangono tanti.

DOVE EUROPA NACQUE, L’EUROPA MUORE
di Andrea Turi

La crisi della Grecia ha messo a nudo le debolezze dell’Unione Europea in generale, e dell’unione monetaria in particolare. Questo breve articolo non ha la pretesa di risolvere il problema relativo alla questione dei debiti sovrani; soffermandosi sull’attualità di alcuni pensatori dimenticati, esso intende focalizzarsi sulla spaccatura tra il nord ed il sud dell’Europa e mostrare come le misure di austerità abbiano aggravato il divario tra i Paesi “virtuosi” dell’Eurozona e i cosiddetti PIIGS.

I GRUPPI TATTICI ED ALTRE FORMAZIONI
di Alessandro Lattanzio

Il concetto del Gruppo Tattico prevede che due unità siano sempre pronte ad intervenire per un periodo di sei mesi, pronta a essere dispiegate per condurre due operazioni distinte, se necessario. Uno o più paesi vi assegnano delle proprie unità militari tattici a turno. Nel primo semestre del 2007, Finlandia, Germania e Olanda crearono il primo Gruppo Tattico; Francia e Belgio il secondo.

EUROPA, DOVE CI PORTI?
di Antonino Galloni

La crisi della moneta unica ha evidenziato la debolezza dell’Unione Europea e suscitato un acceso dibattito sulla stessa identità dell’Europa e su quale cammino il “vecchio continente” debba intraprendere per riconquistare lo status di grande potenza planetaria.

EUROPA E RUSSIA: UN RAPPORTO DA RICOSTRUIRE?
di Giuseppe Cappelluti

La Russia è indubbiamente una parte integrante dell’Europa, ma i suoi rapporti con quelle regioni del Vecchio Continente che avrebbero dato vita all’Unione Europea sono stati spesso controversi, oscillanti tra cooperazione e diffidenza reciproca, radici comuni e forti differenze culturali, rendendo difficile la ricerca un linguaggio comune. La fine della Guerra Fredda ha dato nuovi stimoli a queste relazioni, ma negli ultimi anni i rapporti tra le due parti hanno vissuto un netto peggioramento. L’Europa Occidentale, infatti, sembra ancora influenzata dalla retorica sui “tartari” di matrice ottocentesca e dalla logica dei due blocchi che caratterizzava gli anni della Guerra Fredda; la Russia, d’altro canto, diffida delle influenze occidentali e non dimentica come molti degli invasori che, nel corso dei secoli, hanno tentato di porre fine alla storia della Grande Madre provenivano proprio da Occidente, dalla Polonia al Terzo Reich passando per Napoleone. Eppure non mancherebbero i motivi per costruire rapporti basati sulla cooperazione e sul rispetto reciproco.

LE RELAZIONI DELL’UE CON LA RUSSIA
di Maria Amoroso

Secondo alcuni analisti politici, la nuova crisi istituzionale in Ucraina ha rischiato di compromettere seriamente i rapporti tra Unione Europea e Federazione Russa; secondo altri, essa ha invece rappresentato un’occasione che potrebbe permettere ai due Paesi di uscire dalla fase di stallo in cui si sono venuti a trovare. Ma quali sono, a ben vedere, le linee di continuità dell’altalenante rapporto tra questi due interlocutori? La partita si gioca come sempre su più campi: quello politico, quello economico e quello strategico.

MULTIPARTITISMO E FRONTISMO NELL’EUROPA SOCIALISTA
di Giovanni Armillotta

Rassegna sulla vita elettorale delle ex nove democrazie popolari del nostro Continente. Lo schema parlamentare nei Paesi del socialismo reale europeo. La presenza di altre organizzazioni politiche al di là della guida del Partito-Stato. Sorprese nella Repubblica Democratica Tedesca: la volontà di Stalin nel voler dare un proprio partito agli ex nazisti tedescorientali, al contrario di ciò che è successo nel nostro Paese nel riciclaggio degli ex fascisti, extra Msi. Riflessioni politico-giuridiche. Il singolare caso albanese.

ESPERIENZE COSTITUZIONALI UNGHERESI E ITALIANE
di Katalin Egresi

Il carattere delle costituzioni moderne presenta alcuni speciali motivi con i quali possono essere analizzate le più importanti differenze e somiglianze delle culture costituzionali. Esse si rispecchiano da un lato nelle teorie di Stato e nei valori costituzionali, dall’altro nel metodo con cui viene revisionata la costituzione. Nel primo senso c’è una grande differenza tra la Legge Fondamentale dell’Ungheria e la Costituzione dell’Italia. Mentre la prima è piena di riferimenti allo spirito della costituzione storica e alla dottrina della Sacra Corona, in una visione conservativa e storicista di Stato, la seconda contiene principi fondamentali basati sul compromesso tra le forze politiche dell’Assemblea Costituente. Allo stesso tempo, entrambe sono costituzioni rigide, malgrado vengano applicate differenti tecniche giuridiche.

SCIACALLI E SICARI ALL’ASSALTO DELL’EUROPA
di Giacomo Gabellini

Durante i primi anni del nuovo millennio, la celebre giornalista canadese Naomi Klein elaborò la teoria della “shock doctrine”, la quale sostiene che nel corso degli ultimi decenni le élite hanno sistematicamente sfruttato i momenti di crisi per promuovere politiche neoliberiste che soppiantassero definitivamente la precedente fase “keynesiana”. Tale tesi fornisce una chiave di lettura piuttosto utile ad analizzare le dinamiche politiche ed economiche che hanno interessato l’Europa nel corso degli ultimi decenni.
IL RATTO DI EUROPA
di AA. VV.

Brani di autori greci e latini (Esiodo, Anacreonte, Apollodoro, Ovidio, Orazio, Nonno) sul mito di Europa.
LA GEOPOLITICA, L’IMPERO, L’EUROPA
di Jean Thiriart

Da Les 106 réponses à Mugarza. Da questa intervista inedita, che Jean Thiriart rilasciò nel 1982 allo scrittore spagnolo Bernardo Gil Mugarza, vengono qui tradotte, nell’ordine, le domande 33, 31, 32, 35, 36, 40, 41, 42, 28, 106, 27 con le relative risposte.

PROGETTO PER UNA PIÙ GRANDE EUROPA
Bozza geopolitica per un futuro mondo multipolare, redatta dal Comitato per una più grande Europa.

INTERVISTA A VAQIF SADIQOV
Intervista all’Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia, a cura di Giuliano Bifolchi.


mercoledì 5 marzo 2014

Il nome “Iran”

Ali Reza Jalali 





Il nome di uno Stato o di una nazione, può essere considerato importante da diversi punti di vista, ma uno dei principali è riconducibile al fatto di voler sottolineare una sorta di casa comune per genti che abbiano dei punti e dei principi storici che sottolineino la loro unità. Il nome di uno Stato quindi conferisce unità e aiuta a sottolineare dei tratti comuni tra una molteplicità di persone: ovviamente questi fattori di comunione potrebbero essere diversi, e tra le altre cose possiamo nominare la lingua, la cultura, l’etnia o la religione. Un altro fattore importante è la geografia; infatti spesso i popoli e le nazioni, così come gli Stati, hanno dei limiti geografici e naturali, che per così dire, li “confinano” all’interno di un limes naturale, prima ancora che statuale. Non a caso, uno Stato nasce prima di tutto su un territorio: senza una “terra” non può esistere uno Stato. E questa terra spesso conferisce il nome allo Stato. Se dicessimo quindi che lo Stato prima di diventare tale è un’entità geografica, non avremmo detto una cosa sbagliata. Fattori come il territorio, il popolo e lo Stato sono connessi tra di loro in modo imprescindibile. Sappiamo anche che, normalmente, il nome di uno Stato deriva da un territorio, e il nome di quest’ultimo deriva da un popolo che abita o ha abitato in una data entità geografica. Ad esempio è noto che il termine Italia deriva dal nome di un popolo che nell’antichità, ancora prima della fondazione di Roma, viveva nella penisola italiana. Quindi possiamo dire che l’Italia è sia un nome riconducibile ad uno Stato oggi esistente e quindi attore geopolitico e soggetto di diritto internazionale, sia il nome di una penisola (entità geografica), sia il nome di un popolo di antiche origini. Questo ragionamento, mutatis mutandis, può essere fatto per altri contesti, anche per l’Iran. Questo nome deriva da un popolo (secondo alcuni studiosi gli “ariani”) che nel secondo millennio a. C., invasero un altopiano (entità geografica), successivamente denominato appunto “altopiano iranico”, compreso all’incirca tra il Mar Caspio e il Golfo Persico, che mescolandosi con delle piccole forme di civiltà preesistenti, formarono la base per quello che noi oggi chiamiamo popolo iraniano o iranico. Vi sono però delle varianti per ciò che concerne l’esatto nome di questo popolo che circa quattromila anni fa venne ad abitare l’altopiano suddetto: alcuni, come accennato, parlano di ariani, mentre altri li chiamano arii. Il più antico testo oggi in possesso risalente a questo popolo è l’Avesta, un testo sacro. La lingua in cui è stato scritto questo libro viene definito avestaico, e in questo testo il nome del territorio dal quale provenivano gli ariani o arii è chiamato Airaynem Vaejo. Questo territorio fu abbandonato dagli ariani che si trasferirono sull’altopiano iranico, per via, secondo l’analisi di alcuni studiosi, delle difficili condizioni di vita, legate anche al clima particolarmente rigido e agli inverni molto duri da sopportare. 








Alcuni identificano questo luogo intorno alla catena montuosa del Caucaso, altri invece parlano di alcune regioni dell’Asia Centrale, nei pressi del lago di Aral. Secondo alcuni poi, la migrazione di massa di questi popoli ariani verso sud, sarebbe dovuta non solo a condizioni climatiche divenute insopportabili, ma anche per l’attacco subito da altri popoli asiatici, che costrinsero gli ariani a migrare. A dire il vero questi popoli non migrarono solo verso l’attuale Iran, ma si diressero anche verso il Subcontinente indiano e verso l’Europa. L’attuale parola persiana Iran, è frutto di una evoluzione linguistica che ha caratterizzato i popoli ariani o indoeuropei residenti sull’altopiano iranico. Infatti, essa deriva dall’avestaico Airya e dal pahlavico (la lingua degli iranici in epoca sasanide) Eran. Secondo le antiche leggende iraniche, vi era un sovrano di nome Fereidun, che prima di morire decise di dividere il suo Stato, in tre parti e a guida di ogni regione ci sarebbe stato uno dei tre figli. In particolare Iraj avrebbe governato la zona centrale, che secondo le credenze antiche era il luogo centrale non solo dell’altopiano iranico, ma anche del mondo. Poi un altro figlio di Fereidun, avrebbe governato la zona occidentale, ovvero all’incirca la Mesopotamia e i territori a ovest dell’altopiano. Ed infine il terzo figlio, Tur, dopo la morte del padre, sarebbe divenuto governatore delle zone a est dell’altopiano. Alla morte di Fereidun, avvenne puntualmente la spartizione dello Stato in tre unità, e scoppiano dei conflitti tra i figli, soprattutto tra Iraj, sovrano dell’Iran propriamente detto, e Tur governatore del territorio orientale. Il conflitto degenerò tra i due e Iraj venne assassinato, portando ad un conflitto sempre più intenso tra gli iranici e i turanici. Il nome Persia invece derivava da una delle stirpi indoeuropee che popolarono l’altopiano iranico, ovvero quel gruppo che si era stabilito nella parte meridionale dell’altopiano, sulla costa del Golfo Persico. Questo gruppo indoeuropeo e ariano successivamente, sconfiggerà un’altra popolazione ariana che si era stabilita nella parte occidentale dell’altopiano iranico, ovvero i medi. Essi furono il primo popolo indoeuropeo residente sull’altopiano a creare uno Stato unitario di dimensioni ragguardevoli. I persiani quindi, sconfiggendo i medi, si sostituirono a loro nel dominio dell’altopiano e sotto la dinasta achemenide crearono il primo impero eurasiatico e intercontinentale della storia. Il nome Persia quindi deriva dai persiani, ma fu poi erroneamente usato dai greci per definire tutto il territorio dell’altopiano iranico, quando invece la Persia era ed è solo una delle regioni iraniche. 






Questa regione esiste ancora oggi nella suddivisione amministrativa della Repubblica islamica dell’Iran, col nome di Fars, area che ha come capoluogo Shiraz, nell’Iran meridionale, non lontano da Persepoli, una delle capitali dei persiani della dinastia achemenide. Al tempo dell’impero achemenide quindi, e per tutto il periodo successivo, gli europei chiamarono l’Iran col nome di una delle sue regioni, Persia appunto. A dire il vero anche gli iranici fecero lo stesso con i greci; infatti la penisola ellenica non veniva chiamata col suo vero nome, ma col nome di uno dei popoli ellenici; gli iraniani ancora oggi chiamano la Grecia Iunan, nome derivante dagli ioni, che abitavano la parte occidentale della penisola ellenica.  Così come i turchi di oggi chiamano la Grecia Iunanistan, letteralmente, territorio degli ioni. Ovviamente gli iranici continuarono a chiamare la propria terra Iran, dal pahlavico Eran, e solo nel 1935 anche la comunità internazionale iniziò a usare il nome di Iran, su espressa richiesta dell’allora governo iraniano. L’attuale nome ufficiale di questo Paese e di questo Stato è “Repubblica islamica dell’Iran”, e generalmente sia gli attuali iraniani che gli stranieri quando vogliono indicare tale Paese dicono appunto “Iran”. In definitiva possiamo dire che è più corretto parlare di Iran che non di Persia, non solo nel contesto attuale, ma anche nel passato, per via del fatto che come accennato prima, la Persia è solo una delle regioni iraniche, mentre l’Iran rappresenta tutto lo spazio geografico dell’attuale Stato iraniano.






Tratto da "La Repubblica Islamica dell'Iran tra ordinamento interno e politica internazionale" di Ali Reza Jalali. Libro edito da "Irfan Edizioni" nel 2013. 

GEOPOLITICA DEI MODELLI ISTITUZIONALI DEL MEDIO ORIENTE


:::: Ali Reza Jalali ::::
GEOPOLITICA DEI MODELLI ISTITUZIONALI DEL MEDIO ORIENTE
L’esportazione dei modelli giuridici europei nel mondo islamico
Uno dei principali frutti del colonialismo europeo nel mondo, ed in particolare nell’area compresa tra l’Africa settentrionale e l’Asia sudoccidentale (cosiddetto mondo islamico), è l’influenza dei due principali filoni giuridici (Common law e Civil law) in questa realtà eterogenea. A seconda dell’influenza esercitata dai governi europei sui vari Paesi islamici, quella nazione e quegli ordinamenti hanno assimilato le tradizioni giuridiche del sistema europeo. Ad esempio nei Paesi colonizzati dalla Francia (Marocco, Algeria, Tunisia) prevalgono le influenze di Civil law, mentre nei Paesi assoggettati dall’Inghilterra, ha prevalso il Common law. In altri contesti invece, non ha prevalso l’influenza del Paese colonizzatore o egemone, ma vi è stata la volontà di seguire alcuni giuristi o scienziati del diritto, piuttosto che centri scientifici o universitari. Ad esempio nell’Iran dell’epoca Qajaride (fine Ottocento primi Novecento), pur essendovi l’influenza politica ed economica inglese, si è imposta una cultura giuridica francese, in base al fatto che molti studenti iraniani, si recavano a Parigi per completare i propri studi, assimilando i meccanismi tipici di Civil law, piuttosto che quelli di Common law. Ancora oggi alcuni istituti, soprattutto nell’ambito del diritto civile e commerciale, nei codici iraniani, sono ripresi dalle leggi transalpine. La prima Costituzione approvata in Iran, nei primi anni del Novecento, subì una forte influenza dall’ordinamento francese e belga, pur essendo comunque a grandi linee di matrice islamica sciita. Nell’Impero ottomano prima, e nella Turchia poi, fu importante invece l’influenza del BGB tedesco (Codice civile). D’altronde in questi Paesi vi era radicata una cultura giuridica autoctona (“fiqh”, diritto islamico, nelle sue diverse forme, principalmente hanafita, malikita, shafiita e hanbalita per i sunniti e jafarita per gli sciiti), portando spesso a una sintesi tra gli ordinamenti europei e quelli indigeni.
I rapporti tra il mondo occidentale e il mondo islamico sono sempre stati al centro dell’analisi degli studiosi e degli intellettuali di ambo le culture. Ciò principalmente per la vicinanza geografica dei due mondi, rappresentati rispettivamente dal Nord America e dall’Europa per l’Occidente, e dall’Africa e dall’Asia per l’islam. Ovviamente questo non vuol dire che tutta l’Europa sia “bianca e cristiana” e che tutta l’Africa e l’Asia siano musulmane. In realtà, nel cuore dell’Europa vi sono importanti comunità islamiche, sia rappresentate da Stati “più o meno” nazionali (Bosnia, Albania, Kossovo), sia per la presenza di forti minoranze di religione islamica in Stati a maggioranza cristiana (Macedonia), ma anche per le recenti migrazioni di popoli afro-asiatici oltre il Mediterraneo. Lo stesso dicasi a parti inverse, ovvero in Africa, dove la componente musulmana è maggioritaria nel nord del “Continente nero”, mentre a sud la situazione è diversa. In Asia invece, l’islam è maggioritario dal Mar di Marmara fino al Turkestan cinese, dal Sinai fino all’Indonesia e dall’Asia centrale e dal Caucaso fino al Pakistan e al Bangladesh. Nel resto del continente, principalmente l’India e l’Estremo Oriente, la componente musulmana è minoritaria. Il confine geografico principale quindi tra l’Occidente e l’islam è il Mar Mediterraneo; questo “limes” naturale tra “noi” e “loro” rappresenta un punto di incontro (ma anche di scontro) per due delle principali civiltà oggi conosciute. Volendo però valutare l’importanza dei rapporti tra due civiltà, oltre le questioni culturali, bisogna valutare attentamente anche i fattori economici, religiosi, costituzionali e politici, e l’evoluzione storica che ha portato alla situazione attuale in cui, e purtroppo i notiziari ce lo ricordano tutti i giorni, i Paesi mediterranei e vicinorientali sono in preda a guerre e conflitti, sia per motivi interni, sia per le mire di alcune potenze extraregionali riguardo all’egemonia nella regione del “Grande Medio Oriente”. D’altro canto, la cosiddetta “Primavera araba”, ha dato ulteriore risalto al mondo arabo-islamico, soprattutto per ciò che riguarda i movimenti politici di questi Paesi. Così, sentiamo parlare di “islamisti”, “salafiti”, “liberali”, “laici”, “nazionalisti” in un contesto particolare senza renderci bene conto di cosa sono veramente questi movimenti, e soprattutto quale sia stata la loro origine ed evoluzione storica. Infatti, tutte le ideologie e i movimenti più importanti presenti nel panorama del cosiddetto Medio Oriente, nascono nell’Ottocento, principalmente come risposta al colonialismo anglo-francese, iniziato, nella sua forma “avanzata”, con l’avventura napoleonica in Egitto nel 1798. “Napoleone intendeva stabilire con quell’intervento, una base a Suez, dalla quale disturbare il traffico marittimo dell’Inghilterra verso le colonie asiatiche, principalmente l’India. L’incontro tra la moderna macchina da guerra francese e l’arretrata società egiziana fu un trauma per i musulmani, non solo in Egitto, ma in tutta la regione” (1), scrive a proposito Karen Armstrong. Quell’incontro, o per meglio dire quello scontro, tra l’Occidente e il mondo islamico rappresentò, suo malgrado, l’inizio di un dibattito tra gli intellettuali, i giuristi e gli studiosi di ambo le culture, per trovare da un lato i motivi dell’arretratezza sociale del mondo afro-asiatico, e d’altro canto per provare a dare delle risposte propositive per lo sviluppo del Medio Oriente. Le radici storiche dei movimenti sociali e costituzionali di questi ultimi tempi, vanno ricercate quindi nel XIX secolo. Capire la storia dei movimenti politici e costituzionali del mondo islamico ci aiuta a capire meglio i rapporti tra Occidente e islam, non solo per il passato, ma anche e soprattutto per il presente e il futuro.
Due tendenze costituzionali generali: islamismo e laicità
Le ideologie politiche e costituzionali del mondo islamico possono essere divise in due grandi famiglie: quella del fondamentalismo islamico o islamismo, e quella delle correnti laiche. Ovviamente all’interno di questi filoni vi sono diversi orientamenti, anche antitetici tra di loro. Questa infatti è una schematizzazione per uno studio scientifico, non un’analisi dettata da questioni pratiche. Altrimenti non si capirebbe perché nel contesto attuale, ma non solo, troviamo coalizioni politiche nei Paesi musulmani che riuniscono laici e islamisti, alleati tra di loro contro altri laici ed islamisti. Non bisogna dimenticare mai che teoria e pratica non sempre vanno d’accordo. Comunque, tornando allo schema generale, alcune delle caratteristiche che accomunano i movimenti costituzionali islamisti e quelli laici sono: la volontà di trovare una soluzione all’arretratezza economica e sociale del mondo musulmano rispetto all’Occidente, la promozione dello sviluppo scientifico, il consolidamento di istituzioni moderne, l’opposizione al colonialismo straniero. Le caratteristiche peculiari dell’islam politico in una prospettiva di diritto costituzionale sono: la coincidenza tra religione e politica, o quantomeno la non contrapposizione tra i due fattori, la volontà di creare uno Stato in base ai principi generali del diritto islamico, la tendenziale unità di tutti i Paesi islamici, il rifiuto del nazionalismo e del socialismo, anche in ambito giuridico. D’altro canto alcune caratteristiche salienti del pensiero laico, fortemente influenzato dal costituzionalismo europeo, nel mondo musulmano sono: divisione tra islam e politica, Stato laico e nazionalismo.
Nel mondo islamico di oggi, e soprattutto nel Medio Oriente, i modelli di riferimento possono essere ricondotti a quattro: l’Arabia Saudita, l’Egitto, l’Iran e la Turchia.
Arabia Saudita
Questo Paese è retto da un sistema teocratico, nel quale lo Stato è legittimato da Dio, dove il popolo ha un ruolo pressoché nullo per le attività politiche. Il Re è il capo dello Stato, ma anche capo del governo, e il Consiglio dei ministri è una sorta di assemblea famigliare della Casa reale, in quanto i ministri sono tutti parenti del sovrano. Il modello saudita si autodefinisce salafita, ovvero basato su una sorta di islam della “prima ora”, “puritano”, che rifiuta le “innovazioni” apportate dai giurisperiti islamici lungo i secoli. Nel mondo islamico attuale, questo è un modello di riferimento, per alcuni gruppi wahabiti e salafiti, che hanno accresciuto la loro influenza soprattutto negli ultimi anni, grazie al caos imperante nella regione.
Egitto
Questo sistema si basa su una sorta di coabitazione tra principi democratici e islamici. La Costituzione egiziana infatti, prevede la legittimazione democratica delle istituzioni, ma vi è anche una norma che prevede apertamente il diritto islamico come fonte principale dell’ordinamento statuale; inoltre, secondo la carta costituzionale egiziana, l’islam è la religione di Stato. Infatti al riguardo possiamo citare l’art. 2 della Costituzione del 1971, così come riformata nel 1980 e che poi è rimasta invariata dopo la cosiddetta “Primavera araba”, che definisce senza mezzi termini l’islam religione di Stato, la lingua araba lingua ufficiale e i principi della “sharia” (la legislazione islamica) fonte principale del diritto della Repubblica. Prima della recente modifica costituzionale, che sembra aver reso più “islamico” il sistema, anche la Siria era dotata di una Costituzione non dissimile da quella egiziana. Infatti ancora oggi, la Costituzione siriana prevede la legittimazione popolare delle istituzioni, ma con la precisazione che il Presidente della Repubblica deve appartenere alla religione islamica, senza dimenticare anche il fatto che il diritto islamico è comunque la fonte principale dell’ordinamento. Questo modello sembra diventare progressivamente quello più diffuso nel Nord Africa, una sorta di sintesi demo-islamica, che recentemente è stata recepita dalla Tunisia, anche se poi, ogni nazione parafrasa questi concetti a modo suo (2).
Iran
La Repubblica Islamica dell’Iran, è una forma di Stato “sui generis”, in quanto questo Paese, al contrario degli altri esaminati, è a maggioranza assoluta sciita, e non sunnita. Ciò è evidente anche nella forma di governo, caratterizzata per un modello che alcuni definiscono “democrazia religiosa” (in persiano “mardomsalari-e dini”). Il Paese è retto da un sistema dove ci sono elezioni, ma le norme dello Stato non possono essere in contraddizione rispetto ai canoni del diritto islamico sciita. Il capo dello Stato è un sapiente religioso, ma il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale ogni quattro anni. Questo modello è ufficialmente seguito da alcuni movimenti politici del mondo sciita, soprattutto tra alcuni partiti iracheni e tra il movimento libanese Hezbollah, che nel suo statuto, richiede ai propri membri l’adesione al principio del governo islamico, così come delineato dalla Costituzione iraniana (teoria del governo del giurisperito islamico, in arabo “Wilayat al-Faqih”, che si concretizza nell’ubbidienza politica alla Guida Suprema della Rivoluzione, ovvero nel contesto attuale all’Ayatollah Ali Khamenei). Il modello iraniano è a legittimazione divina, ma prevede in concreto dei meccanismi, per ciò che concenre i rapporti tra i poteri dello Stato, simili alle democrazie, con un governo e un parlamento eletti direttamente dal corpo elettorale.
Turchia
Il modello turco è l’unico veramente laico del Medio Oriente; infatti, nella Costituzione della Repubblica turca, non vi è alcun richiamo alla religione islamica, sia per ciò che riguarda la religione di Stato, sia per ciò che concerne un’eventuale influenza del diritto islamico. Quello turco è indubbiamente il modello più influenzato dai modelli europei, essendo tipicamente laico, se non addirittura laicista, viste alcune evidenti discriminazioni religiose che subiscono i fedeli musulmani in quel Paese, anche se il governo Erdogan è riuscito a ridimensionare fortemente certi atteggiamenti, come il divieto delle donne di portare il velo in certi uffici pubblici. Paradossalmente, un fedele musulmano è più libero di professare la propria fede in un Paese cattolico come l’Italia, che non in uno musulmano come la Turchia. Il modello turco poi si caratterizza per un sistema con forti poteri da parte del Primo Ministro, ma comunque limitati dal parlamentarismo, influenzato a sua volta da una legge elettorale proporzionale con un’altissima soglia di sbarramento, che di fatto pregiudica l’ingresso in parlamento di molte forze politiche, anche se questa soglia di sbarramento, sembrerebbe garantire una certa stabilità ai governi turchi, soprattutto quelli dell’ultimo decennio. Alcuni movimenti islamisti del Nord Africa, hanno detto di rifarsi al modello turco, ma la realtà sembra essere diversa; i Fratelli Musulmani nordafricani e gli altri movimenti simili come Ennada in Tunisia, dal punto di vista istituzionale, sembrano più interessati al modello neo-egiziano, una sintesi di democrazia e islam, che non a quello completamente laico della Turchia, anche se, è bene ricordarlo, la forte instabilità regionale e la salita al potere del generale El-Sisi in Egitto, potrebbero nuovamente cambiare le carte in tavola. La geopolitica dei modelli istituzionali del Medio Oriente si rivela, esattamente come gli altri ambiti concernenti questa regione, molto instabile e soggetta a continui cambiamenti.
Ali Reza Jalali è dottorando in Diritto costituzionale presso l’Università di Verona
1- K. Armstrong, In nome di Dio. Il fondamentalismo per ebrei, cristiani e musulmani, Il Saggiatore, Milano, 2002.
2- Sul tema dei sistemi istituzionali e sulle legislazioni dei paesi arabo-mediterranei vedi Alessandro Ferrari (A cura di), Diritto e religione nell’Islam mediterraneo. Rapporti nazionali sulla salvaguardia della libertà religiosa: un paradigma alternativo?, Il Mulino, Bologna, 2012.