sabato 21 dicembre 2013

Eurasiatismo e occidentalismo: correnti geopolitiche in Iran



Ali Reza Jalali



Il recente cambio di governo in Iran e l’oggettivo riposizionamento della politica estera di Tehran sono lo spunto per una interessane riflessione sui principali filoni geopolitici presenti nel paese mediorientale. Due sono le scuole di riferimento che hanno caratterizzato la sensibilità degli studiosi e dei politici, non solo negli ultimi decenni, ovvero dopo la rivoluzione del 1979, ma anche negli ultimi due secoli: la scuola “eurasiatista” e la scuola “occidentalista”.
La scuola o approccio eurasiatista in politica estera, ha fatto si che gli iraniani cercassero un’alleanza con le potenze orientali, principalmente la Russia, senza dimenticare l’attenzione per la Cina, anche se quest’ultimo paese è oggetto di interesse soprattutto negli ultimi 40-50 anni. Non a caso le relazioni diplomatiche ufficiali tra Iran e Cina risalgono, almeno in epoca moderna, al periodo della Guerra Fredda. Con la Russia invece il rapporto è stato ben diverso, anche perché al tempo degli Zar e poi anche dell’URSS, l’Iran aveva più di mille km di confine terrestre con il gigante eurasiatico, confine venuto meno solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, con la nascita a nord della Repubblica Islamica di nazioni indipendenti quali l’Armenia, l’Azerbaigian e il Turkmenistan. La “russofilia” di alcune cerchie dell’intellighenzia iraniana però, si è rafforzata soprattutto dopo la rivoluzione comunista di Lenin. Non pochi intellettuali iraniani, anche con incarichi istituzionali infatti, professavano simpatie marxiste, creando di fatto la base per una vicinanza tra Iran e URSS. Questa possibile alleanza fu però sempre ostacolata da un’altra corrente geopolitica e intellettuale molto forte, ovvero quella filo-occidentale.
Il filo-occidentalismo degli iraniani si esprimeva principalmente, almeno fino alla Seconda Guerra mondiale, in un filo-europeismo, basato sostanzialmente su tre filoni: gli anglofili, i francofili e i germanofili. In assoluto tra questi tre filoni quello anglofilo fu il più influente a livello politico e economico, mentre quello francofilo era più influente a livello culturale e giuridico. I germanofili invece iniziarono a crescere dopo la salita al potere di Hitler e l’avvento del nazismo. Gli intellettuali iraniani che avevano un approccio di simpatia nei confronti del pensiero nazionalsocialista erano affascinati dalla teorie razziali dei seguaci di Hitler, soprattutto per quello che riguarda l’esaltazione della razza ariana. In Iran poi questa idea veniva associata ad un forte odio nei confronti dell’Islam, in quanto questa religione era stata importata tra i popoli indoeuropei che abitavano l’altopiano iranico da genti semite (arabi), quindi da una razza inferiore, che mescolandosi con gli “ariani” dell’Impero Sasanide, avevano corrotto la purezza iranica e indoeuropea (ariana appunto). Queste idee si svilupparono molto in Iran e raggiunsero addirittura la famiglia reale dei Pahlavi. Reza Khan, pagò a caro prezzo la sua simpatia nei confronti di Hitler e la sua scelta di nominare un premier filo-tedesco in piena Seconda Guerra mondiale, gli costò la deposizione da parte di inglesi e russi.
In generale però, se volessimo semplificare, le due correnti principali che si fronteggiavano in Iran erano quella filo-inglese (occidentalismo) e quella filo-russa (eurasiatismo). Dopo la fine della Guerra mondiale e la creazione di un nuovo equilibrio globale basato sulla contrapposizione tra USA e URSS, gli occidentalisti iraniani iniziarono a guardare con più interesse un’allenza con la nuova potenza emergente nordamericana, segnando così il ridimensionamento dell’influenza europea nel paese mediorientale e in tutta l’area dell’Asia sud-occidentale. Al tempo dell’ultimo re iraniano, Mohammad Reza Pahlavi, senza ombra di dubbio la corrente occidentalista aveva avuto la meglio. Ciò non vuol dire che l’Iran non avesse relazioni con l’URSS, basterebbe pensare che l’industria dell’acciaio in Iran è stata concepita grazie a una stretta collaborazione con Mosca negli anni ’60-’70. Le principali acciaierie iraniane ancora oggi si trovano nella città di Isfahan, dove opera la più impotante acciaieria iraniana, la “Foolad-e Mobarake“, costruita ai tempi dai sovietici. Ma dal punto di vista strategico l’Iran era un paese saldamente nell’orbita occidentale, come dimostrano le varie alleanze militari di Tehran con Turchia e Pakistan, in funzione di contenimento dell’URSS. Non a caso a livello politico i due filoni che si opponevano al regime filo-USA dei Pahlavi erano quelli islamici e marxisti, entrambi con varie sfumature al proprio interno, ma con un ideale geopolitico chiaro: l’alternativa terzafazionista o eurasiatista in contrapposizione all’ideale occidentalista delle autorità.
Con la rivoluzione del 1979 e l’egemonia islamica in Iran, inziò un periodo in cui ufficialmente i governanti di Tehran esprimevano un approccio geopolitico formalmente terzafazionista, sintetizzato nello slogan “na sharqi, na qarbi, jomhurie eslami“, ovvero “né orienale, né occidentale, repubblica islamica“. Nei fatti però, soprattutto per via della chiusura dell’ambasciata USA a Tehran dopo la presa degli ostaggi nel novembre del 1979 (1), l’Iran ha avuto una relazione privilegiata con le potenze orientali, basterebbe dire che l’arsenale bellico dell’Iran derivava principalmente da paesi come Corea del Nord, Cina e URSS. Con la rivoluzione islamica però, non vi fu la completa eliminazione della componente occidentalista in seno alle istituzioni iraniane, ma una sua, per così dire, trasformazione e mimetizzazione. Queste correnti ogni tanto riescono a imporsi in modo più o meno celato. Ciò avvenne per esempio nella seconda metà degli anni ’90, col governo Khatami e oggi sembra riaffiorare un certo occidentalismo anche nel governo Rohani.
La netta cesura tra l’approccio evidentemente eurasiatista di Ahmadinejad e quello occidentalista del team di diplomatici che operano sotto il governo di Rohani, è riscontrabile da diverse azioni e esternazioni dei due leader che si sono dati il cambio al vertice dell’esecutivo di Tehran. Ahmadinejad ha basato la propria politica estera nello scacchiere asiatico sulla vicinanza con la Cina. Più di una volta l’ex leader iraniano ha detto che lo sviluppo della Cina è un bene per tutta l’umanità. Inoltre Ahmadinejad tra le sue prime azioni in politica estera ha promosso le relazioni bilaterali con Mosca, volendo aprire anche un apposito ufficio per l’Eurasia presso il ministero degli Esteri. Non a caso alcuni intellettuali hanno definito l’approccio di Ahmadinejad come “sguardo a oriente” (2). L’eurasiatismo di Ahmadinejad è poi stato avvalorato dal suo approccio molto duro e intransigente con le potenze occidentali, sia con gli USA che con gli inglesi.
Hassan Rohani, eletto nel giugno 2013 invece, si è subito distinto per una evidente voglia di cambiamento, in senso filo-occidentale. Questo evidentemente non vuol dire che l’Iran non è più un paese alleato di Russia e Cina, ma comunque vi è stato un cambiamento nella visione di politica estera dell’Iran. Basterebbe citare una recente intervista di Rohani nella quale egli criticando il precedente governo iraniano disse, in senso denigratorio: “Nei precedenti otto anni abbiamo lavorato solo per creare posti di lavoro in Cina e Corea“. Come per dire che l’impegno eurasiatico del governo Ahmadinejad ha creato benefici solo per i partner orientali, ma non per l’Iran.
Oggi la Repubblica Islamica, nonostante il cambiamento impresso da Rohani in politica estera, rimane un paese vicino alle potenze orientali. Il principale partner economico di Tehran rimane la Cina, e la tecnologia militare iraniana è e sarà ancora per molto legata agli sviluppi di modelli sovietici. L’Iran nei prossimi anni e finché sarà guidata da Hassan Rohani sarà una nazione integrata nel sistema eurasiatico, ma con una finestra aperta a ovest, soprattutto verso l’Europa. Con Hassan Rohani il filone occidentalista iraniano ha preso nuova linfa, ma questa intellighenzia dovrà confrontarsi seriamente col blocco eurasiatista, che potrebbe ripresentarsi alle prossime elezioni, confermando ancora questo ormai secolare scontro tra occidentalisti e eurasiatisti nella “Terra degli Ariani”.
1- Secondo alcuni intellettuali iraniani addirittura la presa degli ostaggi all’ambasciata USA di Tehran, sarebbe stato un progetto di elementi marxisti infiltrati nel movimento islamico, proprio per costringere le autorità iraniane ad avere un approccio più morbido con l’URSS. Questa tesi è stata riproposta da Sadeq Zibakalam, intellettuale riformista iraniano, con un chiaro approccio occidentalista, in chiave di denigrazione nei confronti della presa degli ostaggi. Addirittura recentemente Zibakalam, professore all’Università di Tehran, ha negato che gli USA abbiano sostenuto Saddam contro l’Iran, dicendo che l’antiamericansimo della Repubblica Islamica deriva non dall’essenza della rivoluzione, che sempre secondo Zibakalam, non aveva tratti anti-americani, ma da una successiva deviazione derivante dal contatto del movimento islamico con elementi marxisti-leninisti.
2- Questo concetto è stato coniato da Sepehr Hekmat, coautore insieme a chi scrive, del volume “Giustizia e spiritualità. Il pensiero politico di Mahmoud Ahmadinejad“, pubblicato nel 2013 da Anteo Edizioni con la collaborazione del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo.

martedì 17 dicembre 2013

La nuova politica estera iraniana che mette in imbarazzo l’Occidente


Ali Reza Jalali
Iranian Foreign Minister Zarif addresses the media during a news conference in AnkaraI dirigenti dell’Iran sono estremisti e vogliono fare la guerra al mondo.” Negli ultimi anni questo era il tormentone dei media occidentali e dei governi di USA e UE, che grazie alle esternazioni dell’ex presidente iraniano sull’olocausto e altre vicende, avevano l’opportunità di denigrare la Repubblica Islamica presentandola al mondo come una minaccia. Le elezioni presidenziali del giugno 2013 però hanno premiato Hassan Rohani, in Europa si direbbe un uomo di “centro”, che oggi dirige un esecutivo di larghe intese, con al proprio interno ministri sia conservatori che riformatori. Questo governo di coalizione è riuscito a creare un clima di serenità all’interno delle istituzioni iraniane, riuscendo nell’impresa di mettere d’accordo i vari centri di potere iraniani, dal parlamento alla Guida, fino al clero e a una certa intellighenzia riformista. La forza derivante da questa atmosfera di riconciliazione nazionale, dopo otto anni di esecutivo Ahmadinejad, che aveva creato molte tensioni tra le istituzioni di Tehran, per non parlare poi della ferita aperta del caos del 2009, dove una parte della dirigenza iraniana era entrata in aperto contrasto non solo col presidente, ma anche, cosa ben più grave, con la Guida, ovvero Ali Khamenei, ha portato quindi a liberare le forze represse della diplomazia iraniana. Il ministro degli Esteri Zarif quindi, forte di un ampio consenso in patria ha dimostrato la propria destrezza in vari incontri e soprattutto per ciò che concerne diversi accordi ratificati dal governo iraniano in pochi mesi, con diversi paesi.
La complessità delle dinamiche internazionali però si è riproposta recentemente nella vicenda che caratterizza la diatriba tra l’Iran e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per quello che riguarda il programma nucleare di Tehran. L’accordo di Ginevra firmato qualche settimana fa tra l’Iran e le potenze del CSNU più la Germania (cosiddetto 5+1), prevedeva la sospensione per sei mesi di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica, oltre altri piccoli incentivi, quantificabili in alcuni miliardi di dollari, in cambio, di fatto, di un importante ridimensionamento della potenzialità nucleare iraniana. Come spesso accade, gli accordi internazionali, una volta perfezionati dai diplomatici e dai politici, hanno bisogno del parere dei tecnici per poter essere messi in atto concretamente. A questo scopo gli esperti delle delegazioni dei paesi coinvolti nella vicenda (Iran, USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) da alcuni giorni sono impegnati in degli incontri fondamentali a Vienna. Nella giornata di giovedì 12 dicembre però è arrivata una notizia clamorosa. Nel bel mezzo degli incontri di Vienna, il governo nordamericano in maniera del tutto unilaterale ha approvato nuove sanzioni contro alcune aziende iraniane, accusate di avere un ruolo importante nelle ricerche condotte dagli iraniani nel settore atomico. Per via della clamorosa trasgressione nordamericana quindi, è giunta la notizia che la delegazione iraniana ha abbandonato gli incontri di Vienna. Anche una persona inesperta in materia di diritto internazionale comprende bene come la trasgressione USA sia in palese contraddizione con l’accordo di Ginevra. Per sei mesi non dovevano essere promosse nuove sanzioni, a meno che la parte iraniana non avesse adempiuto completamente alle varie clausole. In questo caso gli iraniani avevano dimostrato il massimo della disponibilità, recandosi a Vienna per gli incontri che dovevano attuare le decisioni prese in Svizzera. Insomma, la decisione nordamericana ha fatto cambiare radicalmente la situazione, dimostrando ancora una volta che nella vicenda, sono i dirigenti USA a non volere seriamente perseguire un accordo equo.
Detto ciò però, la parte iraniana cerca di non demoralizzarsi e continua a condurre un approccio equilibrato.  Per ciò che concerne gli sviluppi dell’accordo di Ginevra tra l’Iran e il 5+1 (attività nucleari di Tehran) infatti, la parte iraniana è molto più interessata della controparte occidentale (soprattutto USA) al conseguimento di un accordo definitivo. Gli USA hanno promosso nuove sanzioni, in palese violazione di quanto deciso in Svizzera qualche settimana fa. Mentre gli iraniani, dopo il ritiro dalle trattative “tecniche” di Vienna, sembrano interessati a portare avanti l’iniziativa diplomatica, a ogni costo. Infatti il ministro Zarif ha detto: “Noi siamo intenzionati a proseguire con la diplomazia in modo serio e deciso. Con la decisione degli americani l’accordo è deragliato, ma non è ancora morto.” Il governo iraniano guidato da Hassan Rohani sembra quindi puntare tutto sull’accordo e ciò smaschera in modo netto la poca attendibilità degli USA, che non rispettano i patti internazionali nemmeno quando hanno a che fare con un governo iraniano moderato.
Oggi gli USA non hanno più la scusa di doversi confrontare a Tehran con un governo estremista, e ciò tatticamente è grande vantaggio per gli iraniani; questi ultimi sembrano consapevoli di ciò e non vogliono perdere il treno della diplomazia. Le attività frenetiche di Zarif sembrano aver messo in imbarazzo gli occidentali che ora non hanno scuse per tirarsi indietro. Per non dire dell’imbarazzo di Tel Aviv, sempre più isolato nello scacchiere mediorientale.

sabato 14 dicembre 2013

L’accordo di Ginevra e l’ennesimo fallimento del diritto internazionale

di Ali Reza Jalali
“Scusa, posso chiederti una cosa? Ma questa vicenda non è la dimostrazione del fallimento del diritto internazionale?” – Questa domanda mi fu fatta qualche mese fa, alla fine di un incontro all’Università di Verona, da una giovane ricercatrice, dopo che avevo esposto una relazione, il cui testo è stato pubblicato su internet (1), concernente le contraddizioni giuridiche della vicenda riconducibile all’attacco militare della “coalizione dei volenterosi” prima e della NATO poi, contro la Libia del colonnello Gheddafi. In quell’occasione infatti, l’Italia, paese legato alla Libia da un “Trattato di amicizia”, aggrediva l’alleato africano, infischiandosene di alcuni articoli del trattato medesimo:
“1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.”
Allora la giustificazione proposta dal governo italiano fu la seguente: l’azione della comunità internazionale è supportata da una risoluzione del Consiglio di Sicuerezza dell’ONU, per cui non vi è alcun problema giuridico. In realtà la risoluzione dell’ONU, non prevedeva direttamente l’uso della forza, ma proponeva solo un generico impegno a usare tutti i mezzi possibili per il mantenimento e il rispetto della “No fly zone” su cieli libici. Il punto è che, secondo molti giuristi, essendoci anche un richiamo al celebre “Chapter 7″ della Carta dell’ONU, ovvero l’articolo che predispone la possibilità da parte della comunità internazionale dell’uso della forza per il mantenimento della pace nel mondo, di fatto è come se la risoluzione anti-libica prevedesse implicitamente la possibilità di un attacco militare contro la Jamahiria. Ciò basterebbe a capire la complessità delle vicende giuridiche, soprattutto in seno alle dinamiche internazionali. Questa complessità si è riproposta recentemente nella vicenda che caratterizza la diatriba tra l’Iran e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per quello che rigurda il programma nucleare di Tehran. L’accordo di Ginevra firmato qualche settimana fa tra l’Iran e le potenze del CSNU più la Germania (cosiddetto 5+1), prevedeva la sospensione per sei mesi di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica, oltre altri piccoli incentivi, quantificabili in pochi miliardi di dollari, in cambio, di fatto, di un importante ridimensionamento della potenzialità nucleare iraniana. Come spesso accade, gli accordi internazionali, una volta perfezionati dai diplomatici e dai politici, hanno bisogno del parere dei tecnici per poter essere messe in atto concretamente. A questo scopo gli esperti delle delegazioni dei paesi coinvolti nella vicenda (Iran, USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) da alcuni giorni sono impegnati in degli incontri fondamentali a Vienna. Nella giornata di giovedì 12 dicembre però è arrivata una notizia clamorosa. Nel bel mezzo degli incontri di Vienna, il governo nordamericano in maniera del tutto unilaterale ha approvato nuove sanzioni contro alcune aziende iraniane, accusate di avere un ruolo importante nelle ricerche condotte dagli iraniani nel settore atomico. Per via della clamorosa trasgressione nordamericana quindi, è giunta la notizia che la delegazione iraniana ha abbandonato gli incontri di Vienna. Anche una persona inesperta in materia di diritto internazionale comprende bene come la trasgressione USA sia in palese contraddizione con l’accordo di Ginevra. Per sei mesi non dovevano essere promosse nuove sanzioni, a meno che la parte iraniana non avesse adempiuto completamente alle varie clausole. In questo caso gli iraniani avevano dimostrato il massimo della disponibilità, recandosi a Vienna per gli incontri che dovevano attuare le decisioni prese in Svizzera. Insomma, la decisione nordamericana ha fatto cambiare radicalmente la situazione, dimostrando ancora una volta che nella vicenda, sono i dirigenti USA a non volere seriamente perseguire un accordo equo. Ancora una volta il diritto internazionale dimostra quindi di non essere un mezzo giusto, in quanto solo le decisioni dei “potenti” hanno effetti concreti, mentre le trasgressioni degli stessi, non hanno conseguenze pratiche. Dinnanzi a un inadempimento di Washington, quali mezzi concreti ha l’Iran per poter perseguire seriamente, e ripeto, seriamente, le proprie istanze? Nessuna! La risposta che diedi alla giovane ricercatrice veronese fu: “Il diritto non esiste. E’ solo un’astrazione, che può essere concretizzata dalla parte contrattualmente più forte”. Questa vicenda, come quella libica, dimostra per l’ennesima volta il fallimento del diritto internazionale. Il diritto internazionale sarà effettivo solo quando al Tribunale Penale Internazionale potranno essere imputati non solo i leader di paesi, a ragione o a torto, reputati dittatoriali o trasgressori dei diritti umani, ma quando anche i leader della cosiddette democrazie occidentali, saranno imputati ed eventualmente punti, per i loro crimini. Il diritto internazionale sarà effettivo solo quando oltre alle sanzioni contro gli “stati canaglia”, verranno applicate sanzioni anche contro i paesi cosiddetti democratici, per le loro trasgressioni degli accordi e dei trattati internazionali. Fino ad allora, continuerà a prevalere il diritto della forza e non la forza del diritto.

(1) http://www.statopotenza.eu/6947/la-vicenda-dei-maro-in-india-e-la-guerra-contro-la-libia-diritto-costituzionale-ordinamento-interno-e-diritto-internazionale

mercoledì 4 dicembre 2013

Questioni geostrategiche dell'Eurasia



di Ali Rastbeen (Accademia di Geopolitica di Parigi) 

Storicamente, ogni paese cerca di rafforzare il suo potere. Per fare questo, ci sono una varietà di mezzi: discussione, collaborazione, partecipazione, rivalità e scontri con altri paesi. Per oltre un secolo, la geopolitica è diventata un punto fondamentale nella letteratura militare, politica e nelle relazioni internazionali. Al di là delle amare conseguenze delle due guerre mondiali nella storia del mondo, la geopolitica sembra essere uno strumento adeguato per esaminare le equazioni di potere e per formulare analisi riguardo i cambiamenti nel mondo.

L'Eurasia è la più grande entità territoriale in tutto il mondo con una rilevanza geostrategica permanente. Alla fine della Guerra Fredda, in seguito alle politiche delle grandi potenze per garantire la sicurezza regionale e globale, l'importanza geopolitica della regione strategica dell'Eurasia è aumentata molto.

L'Eurasia comprende a grandi linee le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, i Balcani , i paesi dell'ex blocco socialista nell'Europa orientale, così come l'Iran, la Turchia, la Cina, l'India, il Pakistan e l'Afghanistan; alcuni però tendono a considerare l'Eurasia come la somma dell'Europa e dell'Asia.

Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Germania e il Giappone sono paesi in grado di spingere la loro influenza al di fuori dei loro confini geografici e possono svolgere un ruolo importante nella politica eurasiatica e cambiare la situazione geopolitica globale. In aggiunta al loro impatto economico, Germania e Giappone rischiano di svolgere un ruolo più importante nell'evoluzione degli eventi in Eurasia, ma la maggior parte dei loro vicini si opporrebbero alla supremazia di questi due attori. Russia e Cina sono le due principali potenze coinvolte in ambito eurasiatico. Grazie alla loro posizione storica e alle condizioni internazionali, nessun attore geopolitico straniero può da solo minare il ruolo fondamentale  di questi due stati.

Gli interessi degli Stati Uniti nella nuova Eurasia sono divisi in due categorie, a breve e a lungo termine. Nel breve periodo, gli Stati Uniti insistono sulla non proliferazione delle armi di distruzione di massa che avrebbero messo in pericolo la loro sicurezza e quella dei loro alleati.
A lungo termine, gli Stati Uniti tentano di bloccare l'influenza dei grandi rivali, così da mantenere la frammentazione geopolitica della regione eurasiatica. Essi temono che se una potenza assicura il suo controllo sulle riserve energetiche e umane eurasiatiche, l'equilibrio delle forze globali cambierebbe a discapito di Washington. Un tempo si temeva che la Germania, da sola o con l'aiuto del Giappone, potesse dominare l'Eurasia. Intervenendo durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno impedito il progetto. Durante la Guerra Fredda, l'obiettivo degli Stati Uniti è stato quello di evitare che l'Unione Sovietica esercitasse un'influenza dominante sull'Eurasia. Rebus sic stantibus, per gli Stati Uniti si possono immaginare le seguenti opzioni.

Una strategia si basa sulla disintegrazione territoriale della Russia e della Cina. Un altro fattore importante per mantenere l'egemonia, è rappresentato dalla possibilità di fomentare tensioni tra i vari attori eurasiatici, come avvenne ad esempio ai tempi della Guerra Fredda con le rivalità tra URSS e Cina. Un altro punto importante è il tentativo degli USA di incentivare l'integrazione dei paesi eurasiatici nell'economia globale, promuovendo così maggiore benessere all'interno di una particolare cerchia delle varie borghesie eurasiatiche, sperando così nell'abdicazione delle pretese geopolitiche da parte di alcuni paesi della regione. Anche se questa strategia ha avuto successo nel caso di alcuni paesi europei in seguito alla loro adesione all'Unione europea, è stato un fallimento per quanto riguarda la Russia e la Cina. 

Per i piani degli Stati Uniti, il ritorno della Russia sulla scena della rivalità geopolitica in Eurasia significherà un ritorno al periodo della Guerra Fredda. Inoltre la Russia riuscirà a consolidare la sua influenza sulle sue immediate vicinanze; in questo modo Mosca sfiderà direttamente gli interessi americani in Medio Oriente e in Europa.

La potenza che dominerà l'Eurasia si garantirà il controllo sull'economia globale. Circa il 75 % della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza mondiale si trova in questa regione. Circa il 60 % del reddito mondiale e quasi i tre quarti delle riserve conosciute di energia si trovano in Eurasia. Tutte le potenze nucleari, ad eccezione degli USA, si trovano in Eurasia.

Data l'importanza geopolitica dell'Asia Centrale, dell'Europa orientale e del Caucaso, gli strateghi USA credono che la chiave per il controllo dell'Eurasia sia il controllo di paesi come l'Iran, l'Ucraina e il Kazakistan; questi paesi dovrebbero essere usati come un ostacolo per quanto riguarda le attività di Russia e Cina nella regione.

Traduzione e sunto a cura di Ali Reza Jalali