lunedì 26 ottobre 2015

Il ritorno della "Nuova Europa" ad un'epoca buia? I neocon statunitensi preoccupati per l'evolversi della situazione politica nell'Est europeo

Il ritorno della "Nuova Europa" ad un'epoca buia? I neocon statunitensi preoccupati per l'evolversi della situazione politica nell'Est europeo 


Il seguente articolo è una libera rielaborazione a cura di Ali Reza Jalali di Il ritorno della "Nuova Europa" ad un'epoca buia? pubblicato dal sito dell'AEI a firma di D. Rohac. Da tale breve saggio emerge chiaramente come non solo i democratici americani vicini a Obama, ma anche gli ambenti oltranzisti del partito repubblicano, a cui AEI è notoriamente vicino, sono molto preoccupati per la crisi dell'Europa orientale, dove il crescente populismo antieuropeista, tende ad avvicinare la Russia a taluni attori dell'area, scalfendo l'influenza di Bruxelles, ma anche di Washington, a vantaggio di Mosca.



Elezioni, la Polonia gela Bruxelles: vincono i nazionalisti anti Ue
Jaroslaw Kaczynski, leader dei nazionalconservatori polacchi



La vittoria ampiamente prevedibile del partito "Diritto e Giustizia" di Jaroslaw Kaczynski (PiS) alle elezioni parlamentari in Polonia (25 ottobre) ha segnato la fine di un'epoca nella storia di alcuni paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia - la c. d. "Nuova Europa" - per usare un termine coniato dall'ex Segretario della Difesa USA Donald Rumsfeld.

Dopo la caduta del comunismo, le élite politiche nei quattro paesi sono stati a lungo uniti nel loro impegno per l'integrazione europea e il rafforzamento dei legami transatlantici.

Quel tempo è finito. Alcune delle più significative personalità filo-occidentali sono trapassate, tra cui Vaclav Havel e, più recentemente, Árpád Göncz.

Altri, tra cui il riformista, ex primo ministro della Slovacchia, Mikuláš Dzurinda, o l'ex ministro degli esteri polacco, Radosław Sikorski, hanno lasciato la politica. E i rimanenti, tra cui l'ex candidato presidenziale Karel Schwarzenberg della Repubblica ceca, sono sulla via del tramonto.

Chi li sta sostituendo? In Ungheria, il potere è saldamente nelle mani di Viktor Orbán, un paria della politica europea. E, nel 2018, gli sfidanti di Orbán arriveranno dall'estrema destra - e cioè dal partito Jobbik.

Il primo ministro della Slovacchia, Robert Fico, nominalmente un socialdemocratico, ha imparato un bel paio di trucchi da Orbán. Come il suo omologo ungherese, il signor Fico non perde occasione di fare appello al radicale conservatorismo culturale, alla xenofobia, o a sentimenti anti-americani al fine di aumentare la sua popolarità in patria, anche se così allontana la Slovacchia dai suoi partner occidentali.

Nella Repubblica Ceca, i partiti politici tradizionali vengono sostituiti da gruppi populisti, talvolta creati da oligarchi locali, come il magnate Andrej Babiš.

E in Polonia il trend è lo stesso, come conferma anche, con toni molto preoccupati, Rohac, analista politico del centro di ricerca neocon USA "AEI". 



Proprio la scorsa settimana, in uno dei numerosi pronunciamenti controversi sulla crisi dei profughi, il polacco ultra-nazionalista Kaczyński ha messo in guardia il suo popolo dai migranti, accusati di portare malattie tropicali in Europa.

Sarebbe facile liquidare questi atteggiamenti come i vaneggiamenti di un vecchio tradizionalista, se non fosse per il fatto che tutto ciò riflette i pregiudizi radicati e condivisi ampiamente dalle società dell'Europa centrale.

La piattaforma di gruppi politici populisti della regione, tra cui PiS, può essere meglio descritta come una rivolta contro il mondo moderno, che sta diventando sempre più globalizzato, integrato e mobile.


Il Partito di Kaczyński promette più spesa sociale e meno tasse, tutto finanziato da contributi mirati sul settore finanziario e sulla tassazione delle società di grandi dimensioni, di proprietà straniera - non in modo dissimile dalle politiche utilizzate dal governo di Orbán in Ungheria.


Tutto ciò complica notevolmente la situazione per le istituzioni comunitarie, che avevano visto in un primo momento nell'Europa orientale un punto di riferimento da contrapporre alla vecchia Europa occidentale. 

L'Unione europea in particolare, è in condizioni di stress senza precedenti. Per mantenere l'Eurozona in vita, i leader europei hanno bisogno di completare l'integrazione fiscale e politica. 

L'Occidente nel suo complesso, compresa l'UE, dovrà riflettere attentamente su come affrontare la minaccia russa, che si estende dal Baltico al Mediterraneo orientale.

Una delle caratteristiche che distingue il marchio della politica di leader come Orbán, Kaczyński, e Fico, è la loro ricerca spasmodica del concetto di 'interesse nazionale.'

Per questi leader l'Euro, la crisi dei rifugiati, la guerra della Russia contro l'Ucraina, non sono problemi che riguardano i loro paesi. 

L'UE è lì per la fornitura di assistenza finanziaria e per la spesa in infrastrutture e per garantire il loro accesso ai mercati europei. La NATO è lì per proteggerli. Ma sembrano del tutto irriconoscenti a ciò. 


Ma c'è da essere fiduciosi. La regione ha istituzioni più forti nella società civile, nei giornalisti e negli intellettuali, rappresentanti di un'ampia porzione filo-occidentale nei paesi dell'area.

Innumerevoli sono le organizzazioni e gli individui che condannano la corruzione della politica locale e il populismo, nonché il malgoverno.

E ci rimangono ancora una manciata di leader politici - come il presidente slovacco Andrej Kiska - che usano la loro influenza per fare le cose giuste.

Purtroppo, come dimostra la vittoria di PiS in Polonia, le cose dovranno probabilmente peggiorare ulteriormente prima di migliorare.


https://www.aei.org/publication/new-europes-return-to-the-dark-ages/

lunedì 5 ottobre 2015

LA GUERRA CIVILE ISLAMICA. "Eurasia. Rivista di studi geopolitici", 3/2015

LA GUERRA CIVILE ISLAMICA. "Eurasia. Rivista di studi geopolitici", 3/2015 


Editoriale di C. Mutti 

“omnia divina humanaque iura permiscentur” (Cesare, De bello civili, I, 6)
La guerra civile è propriamente un conflitto armato di ampie proporzioni, in cui le parti belligeranti sono costituite principalmente da cittadini di un medesimo Stato; obiettivo di ognuna delle due fazioni in lotta è la distruzione totale dell’avversario, fisica e ideologica. Tuttavia tale definizione può essere applicata in modo estensivo: Ernst Nolte, ad esempio, chiama “guerra civile europea” il conflitto delle due ideocrazie che, nel periodo compreso tra la Rivoluzione d’Ottobre e la sconfitta del Terzo Reich, hanno cercato di annientarsi reciprocamente. Guerra civile, ma combattuta su scala mondiale, fu secondo Nolte anche la guerra fredda: uno “scontro politico-ideologico tra due universalismi militanti, ciascuno dei quali era in possesso almeno di un grande Stato, uno scontro la cui posta in gioco era la futura organizzazione di un mondo unitario” (1).
In una certa misura, è possibile estendere la definizione di “guerra civile” al conflitto politico e militare che, nell’odierno mondo musulmano, contrappone Stati, istituzioni, movimenti, gruppi e fazioni appartenenti alla stessa comunità (umma). Un conflitto di tal genere viene indicato dal lessico islamico mediante il termine arabo fitna, al quale ricorre il Corano laddove esso afferma che “la sedizione è più violenta della strage” (al-fitnatu ashaddu min al-qatl) (2).
La prima fitna nella storia dell’Islam è quella che lacerò la comunità musulmana durante il califfato dell’Imam ‘Ali. Conclusasi la rivolta dei notabili meccani con la loro sconfitta nella Battaglia del Cammello, la fitna riesplose con la ribellione del governatore della Siria, Mu’awiya ibn Abi Sufyan, il quale, dopo aver affrontato a Siffin l’armata califfale e dopo essersi impadronito dell’Egitto, dello Yemen e di altri territori, nel 661 diede inizio alla dinastia omayyade. Una seconda fitna contrappose il califfo omayyade Yazid ibn Mu’awiya al nipote del Profeta Muhammad, al-Husayn ibn ‘Ali, che il 10 ottobre 680 conobbe il martirio nella Battaglia di Kerbela. La terza fitna fu lo scontro interno alla famiglia omayyade, che spianò la strada alla vittoria abbaside. La quarta fu la lotta fratricida tra il califfo abbaside al-Amin e suo fratello al-Ma’mun.
La prima e la seconda fitna, lungi dall’essersi risolte in un mero fatto politico, sono all’origine della divaricazione dell’umma islamica nelle varianti sunnita e sciita: due varianti corrispondenti a due prospettive della medesima dottrina e perciò definibili come “dimensioni dell’Islam insite in esso non per distruggere la sua unità, ma per rendere atta a parteciparvi una più ampia parte di umanità e individui di differente spiritualità” (3).
Ora, mentre la maggior parte degli Arabi, dei Turchi, dei Pakistani è sunnita, come sunnita è pure l’Indonesia, che è il più popoloso dei paesi musulmani, il nucleo più compatto e numericamente consistente dell’Islam sciita è rappresentato dal popolo iraniano. Questa stretta relazione dell’Iran con la Scia viene oggi utilizzata in un quadro strategico ispirato alla teoria dello “scontro di civiltà”: i regimi del mondo musulmano alleati degli Stati Uniti e di Israele fanno un ricorso strumentale al dualismo “Sunna-Scia” al fine di eccitare lo spirito settario e dirigere le passioni delle masse contro la Repubblica Islamica dell’Iran, dipinta come irriducibile nemica dei sunniti e presentata come nucleo statuale dell’egemonia regionale “neosafavide” (fu sotto la dinastia safavide che nella Persia del XVI secolo la Scia diventò religione di Stato).

L’alimento ideologico del settarismo antisciita è costituito soprattutto, anche se non unicamente, dalle correnti wahhabite e salafite, le quali fin dal loro apparire sono state oggetto di riprovazione e di condanna da parte dell’ortodossia sunnita. Circa lo storico rapporto di solidarietà che collega tali manifestazioni di eterodossia all’imperialismo britannico e statunitense, ci siamo già dilungati altrove (4). Qui sarà opportuno osservare che il più recente e virulento prodotto delle suddette correnti, ossia il sedicente “Stato Islamico” (Daesh, Isis, Isil ecc.), palesemente sostenuto da Arabia Saudita, Qatar e Turchia, è lo strumento di una strategia americana finalizzata ad assicurare al regime sionista l’egemonia sul Vicino Oriente e quindi ad impedire il formarsi di un blocco regionale che dall’Iran si estenda fino al Mediterraneo.
Occorre inoltre notare la significativa somiglianza che intercorre tra il caricaturale e parodistico “Califfato” di al-Baghdadi e la petromonarchia saudita. Gli efferati e bestiali atti di sadismo compiuti dagli scherani del cosiddetto “Stato Islamico”, la devastazione sacrilega dei luoghi di culto tradizionali e la vandalica distruzione dei siti della memoria storica in Siria e in Iraq, infatti, costituiscono altrettante repliche di analoghi atti di barbarie commessi dai wahhabiti nella penisola arabica (5). Il cosiddetto “Stato Islamico”, come è stato ampiamente mostrato sulle pagine di questa rivista6, non è se non una forma radicale e parossistica di quella particolare eterodossia che ha il proprio eponimo in Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. D’altronde, sia l’entità saudiana sia la sua replica denominata “Stato Islamico” devono entrambe la loro nascita e il loro sviluppo agl’interessi angloamericani ed alle scelte operative della geopolitica atlantica.
La “guerra civile” islamica, la fitna che oggi divampa nel mondo musulmano, trae dunque origine dall’azione combinata di un’ideologia settaria e di una strategia che i suoi stessi ideatori hanno chiamata “strategia del caos”.
Claudio Mutti è Direttore di “Eurasia”.

NOTE
1. Ernst Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg (2a ed.), Klett-Cotta, Stuttgart 1985, p. 16.
2. Corano, II, 191.
3. Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milano.
4. Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. IX, n. 4, ott.-dic. 2012, pp. 5-11.
5. Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 4, ott.-dic. 2014, pp. 61-70.
6. Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 4, ott.-dic. 2014, pp. 81-85.


Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi
EDITORIALE
Claudio Mutti, La guerra civile islamica

DOSSARIO: LA GUERRA CIVILE ISLAMICA
LA GUERRA ALL’ISIS SENZA L’ONU
di Ali Reza Jalali
L’avanzata del cosiddetto “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” ha posto seri problemi al sistema attuale delle relazioni internazionali e del diritto internazionale, non solo per le drammatiche atrocità e le palesi violazioni del diritto umanitario da parte dei miliziani radicali, ma anche per via dell’incapacità della “comunità internazionale” di trovare un accordo su come affrontare tale inquietante problema. Ciò si è concretizzato nell’assenza di una risoluzione del CSNU contro l’ISIS, che potesse autorizzare, in ossequio alla legalità internazionale, un conflitto contro il gruppo guidato da Abu Bakr Al-Baghdadi, ponendo gli studiosi dinnanzi a problemi risolvibili solo attraverso elaborazioni dottrinali forzate, volte a giustificare legalmente una guerra senza mandato ONU.

LE FASI DI UNA FITNA ORGANIZZATA
di Pierre Dortiguier
Il termine coranico fitna (“discordia, sedizione, guerra intestina”) indica il crimine più grave, perché equivale ad un suicidio della comunità. La fitna attuale è il prodotto di una sorta di bolscevismo musulmano, negatore di ogni base culturale, che si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. L’autore – che per confutare la rovinosa utopia wahhabita si richiama alla Sura V – ritiene che tale deviazione sia il risultato di un’opera di sovversione psicologica, finalizzata a garantire sopravvivenza all’entità sionista, tra le macerie di un Vicino Oriente impegnato in una lotta fratricida.

L’ETICHETTA CONFESSIONALE DELLA GUERRA YEMENITA
di Domenico Caldaralo
L’attuale conflitto in Yemen è stato dipinto come scontro tra sunniti e sciiti: sunniti capeggiati dall’Arabia Saudita da un lato e sciiti ispirati dall’Iran dall’altro. In realtà nel paese si fronteggiano due schieramenti politici. L’uno favorevole a un governo su base tribale e strutturato in maniera confederale tra un nord sciita e un sud-est sunnita, l’altro favorevole a una soluzione presidenzialista e unionista. I grandi attori coinvolti non hanno il medesimo interesse nella partita yemenita. L’Arabia Saudita non vuole avere una potenziale spina nel fianco ai suoi confini, mentre l’Iran, il cui appoggio ai ribelli houti non è provato in alcun modo, auspica una soluzione politica della crisi.

DOPO LA DISTRUZIONE DELLA GIAMAHIRIA
di Gaetano Potenza
Il quadro politico istituzionale della Libia odierna, a quattro anni dall’inizio delle rivolte, è caratterizzato da una frammentazione dell’uso della forza che ha creato una divisione istituzionale con due parlamenti e rispettivi governi a Tobruk e Tripoli. Ad essi vanno aggiunte le forze della galassia gihadista e dello “Stato Islamico” che controllano parti strategiche del paese. Se da un lato la causa della frammentazione è da attribuire alla mancanza di una forza egemone che sapesse sintetizzare la base sociale del paese, come era avvenuto fin dalla nascita della Libia, dall’altra la comunità internazionale ha ripetuto l’errore commesso in Iraq non facendo seguito ad una fase che potesse garantire la transizione delle neonate istituzioni libiche.

LA “PRIMAVERA ARABA”, CINQUE ANNI DOPO
di Enrico Galoppini
Il caos e la sovversione, in soli cinque anni di “rivolte”, hanno reso il mondo arabo-islamico molto più insicuro per tutti. Il bilancio della “primavera araba” è a dir poco tragico. Da un lato, le istanze che spingono verso una “società aperta”, dall’altra un apparente “tradizionalismo”. In mezzo alla guerra fratricida etnica e religiosa, ci guadagna chi ha reso il Dâr al-Islâm il campo di battaglie per interposta persona. Il crollo delle “repubbliche” e il ruolo delle monarchie che vantano una legittimità religiosa. Il grande interrogativo è su come andrà a finire.

ANATOMIA DEL CAOS
di Amedeo Maddaluno
Quello cui assistiamo non è uno scontro religioso tra sciiti e sunniti. È uno scontro geopolitico che coinvolge le tre potenze storiche della regione (quella turca, quella persiana e quella saudita) e le tre grandi potenze globali (USA, Russia, Cina). Ciò spiega l’ambiguità degli USA nel loro atteggiamento verso il sedicente “Stato Islamico”, Al Nusra, il settarismo wahhabita e salafita nonché l’appoggio turco a quest’ultimo. Senza l’intervento russo non ci sarebbe speranza per Damasco. Un’Europa sempre più suddita e priva di strategia, invece di ringraziare la Russia che tenta di evitare il dilagare del cosiddetto “Stato Islamico”, si accoda agli USA contro il proprio interesse principale: stabilizzare il Vicino Oriente.

LA VITTORIA ISLAMISTA IN MAROCCO
di Alessandro Balduzzi
La prospettiva di un moloch fondamentalista incoronato dalle urne appare un’esagerazione figlia dell’attuale clima di terrore islamofobo.

MIGRAZIONI
LO SCIPPO DELLA SOVRANITA’ E LE MIGRAZIONI SUBITE
di Enrico Galoppini
I nodi dell’assenza di sovranità di questa “Unione Europea” stanno venendo impietosamente al pettine. Il banco di prova è quello delle cosiddette “migrazioni globali”, subite passivamente perché con la medesima passività viene subita la riduzione dell’Europa a prolungamento strategico dell’America. Settant’anni di occupazione militare, politica, economica e culturale hanno prodotto degli europei che non sapendo più chi sono si avviano – se non interverrà un miracolo – alla loro pura e semplice dissoluzione.

MIGRANTI IN TURCHIA
di Aldo Braccio
L’articolo riscontra i casi di migrazione interna – in particolare verso Istanbul – e il fenomeno dell’emigrazione all’estero, in primo luogo verso la Germania: il caso dei gecekondular e il concetto di gurbet possono rappresentare rispettivamente il degrado metropolitano connesso al primo caso e l’atteggiamento di nostalgia (di desiderio di ritorno alla patria) legato al secondo. Viene poi trattato l’aspetto particolarmente importante e attuale della migrazione di transito in Turchia, che si accompagna alla massiccia presenza di profughi siriani stanziati nel territorio turco, e viene dato conto della normativa nazionale – anche in relazione alla Convenzione di Ginevra – in tema di immigrazione.

L’IMMIGRAZIONE AFGANA IN IRAN
di Ali Reza Jalali
I fenomeni migratori di massa sono stati spesso nella storia il frutto di problemi economici, guerre e cambiamenti climatici che in alcuni casi hanno costretto milioni di persone ad emigrare dai loro territori creando situazioni complicate, soprattutto nelle fasi iniziali dei nuovi insediamenti. L’epoca contemporanea non è esente da questi fatti; anzi, la globalizzazione e la relativa facilità degli spostamenti da un luogo all’altro hanno contribuito a velocizzare i processi migratori. Un caso interessante di migrazione dovuta a motivi legati alle condizioni economiche ed alla guerra è quello che ha visto protagonisti gli afgani emigrati in Iran dalla fine degli anni ’70 del XX secolo ad oggi, fenomeno poco conosciuto nella dottrina italiana, ma sempre al centro dei precari equilibri geopolitici del Vicino Oriente e dell’Asia centrale.

CONTINENTE RUSSIA
L’ARTICO E LA “PRIMAVERA RUSSA”
di Davide Ragnolini
L’attuale fase della “seconda guerra fredda” ha visto un’accresciuta assertività della politica artica russa ed un’ufficiale adesione ad un orientamento antirusso da parte del blocco scandinavo. Sullo sfondo del recente confronto diplomatico e strategico tra Mosca e la NATO nella regione artica si stagliano la rilevanza delle risorse energetiche artiche, l’importanza delle implicazioni strategiche ed economiche dell’impiego del passaggio a nord-est per Russia e Cina, il coinvolgimento in un piano di crescente militarizzazione della regione di attori esterni all’Alleanza Atlantica come Svezia e Finlandia, ed il tentativo di isolare la Russia all’interno dell’Arctic Council.

TBILISI SETTE ANNI DOPO
di Ivelina Dimitrova
Nel 1991, in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica, la Georgia proclamò con un referendum, boicottato dalle minoranze ossete e abkhaze, la propria indipendenza. Nell’articolo vengono ripercorse le vicende geopolitiche di Tbilisi dai primi anni Novanta fino ai giorni nostri, eventi significativamente condizionati dalle due guerre ossete, le cui ferite non si sono ancora del tutto rimarginate. Vengono analizzati l’ascesa e il declino politico di Michail Saakashvili, leader di quella “rivoluzione delle rose” che nel 2003 rovesciò il governo di Eduard Shevardnadze, per giungere all’affermazione, nel 2012, del partito fondato dal miliardario georgiano Bidzina Ivanishvili, che da allora domina la scena politica nella piccola repubblica caucasica. La nuova dirigenza georgiana, al contrario di quella di Saakashvili, sta attuando una politica pragmatica, moderata e prudente nella gestione dei rapporti con il potente vicino russo, pur continuando a dichiarare che le priorità per la Georgia rimangono sempre le stesse: ingresso nella NATO e nell’UE.

INTERVISTE
ITALIA E IRAN: UN RAPPORTO DA CONSOLIDARE
Emanuele Bossi intervista Alì Pourmarjan

CONTESTO INTERNAZIONALE DEL CASO MORO
Anna Maria Turi intervista il Generale Cornacchia

RECENSIONI
Fabio Falchi: Una nuova storia alternativa della filosofia di Costanzo Preve
Giacomo Gabellini: Capire la Russia di Paolo Borgognone
Davide Ragnolini: L’aquila della steppa di Aldo Fais
Enrico Galoppini: Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica di Alain De Benoist e Aleksandr Dugin
Enrico Galoppini: Istanbul di Franco Cardini
Enrico Galoppini: Rivoluzioni spa. Chi c’è dietro la primavera araba di Alfredo Macchi
Marco Toti: Dialogo sull’Islam tra un padre e un figlio di Dag Tessore e Alberto Tessore
Yannick Sauveur: Le Camp des Saints di Jean Raspail


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