sabato 28 giugno 2014

Nuovo numero di "Eurasia. Rivista di studi geopolitici". La seconda guerra fredda

Nuovo numero di "Eurasia. Rivista di studi geopolitici"
 
 
La seconda guerra fredda
 
La nuova guerra fredda
 
 
 
SOMMARIO
 
 XXXIV 2 - 2014
 
 
Editoriale
 
Claudio Mutti, La seconda guerra fredda
 
Geofilosofia
 
Davide Ragnolini, L’ebraismo nella prospettiva geofilosofica hegeliana
 
Dossario – La seconda guerra fredda
 
Aleksandr Dugin, La Russia e l’Occidente nell’ottica eurasiatista
Andrea Forti, La prima Ucraina indipendente
Giuseppe Cappelluti, Le altre Crimee
Giuseppe Cappelluti, La Crimea vista dalla Mezzaluna
Alessandro Lattanzio, Lo scudo e il controscudo
Enrico Galoppini, Un esempio di “soft power” occidentale: la propaganda omosessuale contro la Russia
Aldo Braccio, Turchia e Russia: nemici per forza?
Maria Amoroso, Russia: capitali in fuga
Maurizio Sgroi, La fredda guerra della Russia
Claudio Mutti, Talassocrazia e sanzioni
Giovanna De Maio, L’eco di Euromaidan in Bielorussia
Ali Reza Jalali, L’Asse della Resistenza nella seconda guerra fredda
 
Continenti
 
Michele Orsini, L’Unione antieuropea
Katalin Egresi, Storia del costituzionalismo ungherese
Ivan Buttignon, Imporre la cultura europea agli Europei
Cristiano Procentese, Crisi economica europea e nuovi movimenti sociali
Silvia Bettiol, Le relazioni USA-Pakistan
 
Recensioni
 
Giulietto Chiesa, Invece della catastrofe
 
N.B. "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" è una rivista scientifica riconosciuta come tale dal sito del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e gli accademici che scrivono articoli su "Eurasia" li possono caricare sul proprio sito personale (MIUR-CINECA), contribuendo al miglioramento del proprio curriculum scientifico.
 
 
 
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi
 
EDITORIALE
 
Claudio Mutti, La seconda guerra fredda
 
L’EBRAISMO NELLA PROSPETTIVA GEOFILOSOFICA HEGELIANA
di Davide Ragnolini
In uno scambio epistolare con Engels, Marx affermò nel 1853 che l’intera storia dell’Oriente appariva come una storia delle religioni. Il fondamento storico e geografico di tale intuizione si può rinvenire già nelle lezioni hegeliane sulla filosofia della storia e sulla filosofia della religione, dove viene metodologicamente posta la comprensione della successione delle forme religiose da est ad ovest secondo una sorta di idealismo geografico. L’interpretazione di tale successione poggia sull’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra libertà, sviluppo della coscienza dell’uomo e grado di dipendenza dalla natura. Seguendo Hegel nella sua filosofia idealistica della storia orientata teleologicamente secondo una progressiva distanza dagli altipiani continentali, proprio ai limiti del continente asiatico, presso la costa mediterranea dell’Asia occidentale, trova localizzazione la religione monoteista ebraica. Nella prospettiva del filosofo con questa nuova religione si consumerebbe la rottura («der Bruch») del rapporto tra Oriente e Occidente, di cui qui si tenta di offrire un’ipotesi di interpretazione geofilosofica.
 
LA RUSSIA E L’OCCIDENTE NELL’OTTICA EURASIATISTA
di Aleksandr Dugin
 
La tesi secondo cui la Russia costituisce una civiltà a parte, uno “Stato-mondo”, rappresenta una premessa su cui potremmo fondare le nostre previsioni sullo sviluppo delle relazioni tra la Russia e l’Occidente. In questo caso, la percezione dell’Occidente (nonché della modernità, in tutte le sue forme), in tutti i sensi della parola, da quello storico fino a quello dei valori e dei significati ideologici, corrisponde ad un male; è una concezione negativa, un’antitesi hegeliana, qualcosa che deve essere respinto, sconfitto, superato, esaurito e, in una prospettiva a lungo termine, annientato. Questo punto di vista era condiviso dagli Zar russi del periodo moscovita (i quali vedevano nell’Europa “un impero di eretici”, “di papisti e luterani”), dagli slavofili (specialmente dai più recenti), dai populisti russi, dagli eurasiatisti e dai comunisti (in conformità con la loro specifica ideologia di classe). Partendo da questa prospettiva, le relazioni tra la Russia e l’Occidente devono essere costruite secondo un criterio diverso. Questa posizione può essere definita come radicalmente antioccidentale. La civiltà russa deve ingaggiare un combattimento finale e decisivo. Un postulato del genere porta alla negazione totale di quella via di sviluppo su cui si è incamminato l’Occidente e coloro che, volenti o nolenti, si sono trovato nella sua area d’influenza.
 
LA PRIMA UCRAINA INDIPENDENTE
di Andrea Forti
 
Le recenti violenze armate in Ucraina fra elementi russofili del Sud Est, che mirano all’autonomia regionale e ad un’eventuale riunificazione con la Russia, e il governo centrale di Kiev, uscito dalla cosiddetta “Rivoluzione dell’Euromajdan” e nel quale è ben rappresentata la componente ideologica nazionalista ucraina antirussa, riportano alla luce problemi irrisolti della costruzione dell’identità nazionale e della statualità ucraina. Per comprendere meglio certe dinamiche della problematica storia di questo paese slavo orientale è utile ripercorrere le vicende, poco conosciute, della prima Repubblica Ucraina indipendente, un’entità statale esistita dal 1917 al 1921, durante i tormentati anni della guerra civile russa fra “rossi” e “bianchi”, e caratterizzata da una cronica instabilità politica interna dovuta anche allo scarso radicamento del sentimento nazionale ucraino.
 
LE ALTRE CRIMEE
di Giuseppe Cappelluti
 
La crisi in Crimea ha riacceso i riflettori sulle minoranze russe dello spazio ex-sovietico. I timori legati alla nascita di fenomeni irredentisti nell’area, in realtà, non sono mai stati del tutto assenti, ma la recente secessione della Crimea, attivamente sostenuta dalle truppe russe, li ha rinfocolati in virtù di di un possibile “effetto domino” che potrebbe riguardare non solo l’Ucraina orientale e meridionale, come noto, ma anche Moldavia, Repubbliche Baltiche e Kazakistan. Tali rischi, tuttavia, sono molto limitati: in Moldavia la Transnistria è di fatto già indipendente, mentre Lettonia, Estonia e Kazakistan, seppure per motivi diversi, sono sostanzialmente al riparo da una possibile diffusione dell’irredentismo russo.
 
LA CRIMEA VISTA DALLA MEZZALUNA
di Giuseppe Cappelluti
 
I Tatari di Crimea sono stati l’unico gruppo etnico rilevante ad aver boicottato il referendum del 16 marzo sull’adesione della Crimea alla Russia. Ciò non dovrebbe stupire: dal rogo di Mosca del 1571 alle deportazioni di epoca staliniana, dopotutto, i conflitti tra la Russia e i Tatari di Crimea sono stati numerosi. Oggi, con la Crimea nuovamente russa, la questione tatara ha suscitato non poco interesse, ma a preoccuparsene realmente sono soprattutto la Turchia e la Repubblica russa del Tatarstan. Entrambi sono mossi dalla speranza di ricostruire dei legami storici, culturali e religiosi con un popolo fratello, ma le loro prospettive sono ben diverse: la Turchia è un membro della NATO, pur avendo forti relazioni economiche con la Russia, mentre il Tatarstan fa parte della Federazione Russa.
 
LO SCUDO E IL CONTROSCUDO
di Alessandro Lattanzio*
 
La nuova Guerra Fredda s’incentra sul confronto militar-strategico imposto dalla creazione e dall’estensione del cosiddetto Scudo Antimissile, che gli USA cercano di costruire in Europa Orientale, Vicino Oriente ed Asia orientale. Sebbene travagliate da scandali interni e riduzione degli stanziamenti, le forze strategiche statunitensi portano avanti il programma di aggiornamento del proprio arsenale nucleare. Mosca, tuttavia, ha i suoi assi da giocare nella nuova corsa agli armamenti strategici del XXI secolo.
 
LA PROPAGANDA OMOSESSUALE CONTRO LA RUSSIA
di Enrico Galoppini
 
Per alimentare una nuova “Guerra Fredda” con la Russia, l’America ed i suoi alleati occidentali fanno ampio ricorso alla “ideologia di genere”, nella quale si situano le rivendicazioni a favore dei “diritti degli omosessuali”: la Russia e la sua dirigenza sono così presentate come “omofobe”. L’autore indaga inoltre le radici ‘filosofiche’ di questo tipo di ideologia, evidenziando come ciò non si limiti alla mera propaganda, ma punti alla trasformazione delle basi stesse della vita degli esseri umani e delle loro comunità.
 
TURCHIA E RUSSIA, NEMICI PER FORZA ?
di Aldo Braccio
 
I teorici della nuova Guerre Fredda contro la Russia prevedono che – come negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale – un ruolo strategico importante sia affidato alla Turchia: ciò avrebbe come conseguenza l’insanabile frattura della continuità euroasiatica e la contrapposizione fra mondo slavo e mondo turco, due realtà che convivono da secoli pur nell’alternanza di fasi di squilibrio e di mutua collaborazione. Il fondamentale partenariato energetico e le molteplici relazioni fra i due Paesi, in decisa crescita negli ultimi dieci/quindici anni, potranno invece evolvere in un rapporto di autentica solidarietà destinato a rinsaldarsi in una prospettiva di sovranità e di pax eurasiatica: la situazione in corso in Ucraina e in Crimea non deve – in tal senso – diventare occasione di divisione e contrapposizione.
 
RUSSIA: CAPITALI IN FUGA
di Maria Amoroso
 
Il problema della fuga dei capitali ha sempre costituito un tallone d’Achille per l’economia in ripresa della Federazione Russa. Il Paese ha cercato negli ultimi anni di migliorare significativamente il clima degli investimenti, incoraggiando e sostenendo le imprese e supportando la politica degli Investimenti Diretti Esteri. In seguito agli avvenimenti in Crimea e in Ucraina ed alle sanzioni economiche che ne sono scaturite, i capitali continuano a fuggire dalla Russia, e la situazione non sembra accennare ad un miglioramento, costituendo una minaccia anche per l’Occidente.
 
LA FREDDA GUERRA DI RUSSIA
di Maurizio Sgroi*
 
 La Russia è di nuovo un problema, dopo essere stata per un decennio una delle opportunità più corteggiate dall’Occidente. La crisi ucraina ha riacceso abiti mentali che ormai parevano consegnati alla storia: il fantasma della guerra fredda è tornato ad affacciarsi nell’arena delle relazioni internazionali. Ma stavolta non è la paura della bomba a “raffreddare” la guerra, bensì la natura stessa del confliggere contemporaneo, freddo perché figlio del calcolo e delle statistiche economiche. La Russia è diventata troppo grande e interconnessa a livello globale per poter fallire. Questa nuova deterrenza condurrà necessariamente a una distensione, che per la Russia può voler dire definitiva omologazione con quell’Occidente tanto vituperato. Era già successo, alla fine del XIX secolo, all’epoca della prima grande globalizzazione. E poi di nuovo, negli anni Venti della Nep. E tutte e due le volte è finita male.
 
TALASSOCRAZIA E SANZIONI
di Claudio Mutti
 
Fin dall’epoca della guerra del Peloponneso, le sanzioni rientrano nella categoria di quelle armi economiche alle quali viene assegnato l’obiettivo di indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi le applica. Nella fattispecie delle sanzioni “chirurgiche” contro la Russia, decretate dagli Stati Uniti e adottate sia pur con una certa renitenza dall’Unione Europea, la strategia è dichiaratamente geopolitica. La talassocrazia statunitense persegue infatti lo scopo di estendere, attraverso un’Ucraina risucchiata nell’orbita occidentale, il raggio dell’influenza atlantica, rinsaldando così quella che Zbigniew Brzezinski ha definita “la testa di ponte democratica dell’America” nel continente eurasiatico.
 
L’ECO DI EUROMAIDAN IN BIELORUSSIA
di Giovanna De Maio
 
La questione ucraina è un campanello che mette in allerta la comunità internazionale, ma ancora piu’ forte fa tremare lo spazio post-sovietico. Un Paese come la Bielorussia, il cui duraturo regime autoritario gode di un forte consenso e i cui indicatori economici sono tra i piu’ positivi dei paesi del Partenariato orientale, cerca in questo contesto di fare la sua parte. Sbilanciarsi troppo a est o troppo a ovest potrebbe costare caro. Negoziare un appoggio la Russia in cambio dell’eliminazione dei dazi sui prodotti derivati dal petrolio russo potrebbe invece rivelarsi una strategia vincente.
 
L’ASSE DELLA RESISTENZA NELLA SECONDA GUERRA FREDDA
di Ali Reza Jalali
 
La regione mediorientale ed in particolare l’Iran si sono trovati sempre al centro degli appetiti delle grandi potenze, sia per la collocazione geografica, sia per le ingenti risorse del sottosuolo. Ciò è un punto cardine nelle relazioni internazionali, soprattutto per quello che riguarda i rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia, interessati, sia oggi che in passato, ad esercitare la loro egemonia sul Medio Oriente e sul paese persiano.
 
L’UNIONE ANTIEUROPEA
di Michele Orsini
 
Nel linguaggio giornalistico, come in quello comune, è oramai largamente invalso l’uso della parola “Europa” come sinonimo di Unione Europea. Quest’uso risponde ad esigenze di brevità e semplicità, tuttavia è foriero anche di un fraintendimento, uno scivolamento di senso a causa del quale i numerosi movimenti euroscettici sorti in diversi Paesi del continente vengono spesso definiti o si definiscono essi stessi come antieuropeisti, se non addirittura antieuropei. Memori del monito di Nietzsche “il modo più perfido di nuocere ad una causa è difenderla intenzionalmente con cattive ragioni”, possiamo pensare che talora dietro questo utilizzo della parola ci sia un’intenzione deliberata. Eppure, che l’Unione Europea sia cosa diversa dall’Europa dovrebbe essere piuttosto facile da capire; c’è bisogno invece di un’analisi più sottile per comprendere come essa le sia addirittura nemica, una perfetta antitesi dell’idea stessa di Europa.
 
STORIA DEL COSTITUZIONALISMO UNGHERESE
di Katalin Egresi
 
Con l’entrata in vigore della Legge Fondamentale di Ungheria, il 1 Gennaio 2012, e in seguito alle discussioni politiche e pubblicistiche che essa ha sollevato, sarà forse utile ripercorrere la storia delle costituzioni ungheresi. Seguendo il loro sviluppo storico, a partire dalle consuetudini medievali, fino alle prime costituzioni scritte e alla promulgazione della nuova Legge Fondamentale, probabilmente si può arrivare ad una interpretazione più equilibrata della nuova costituzione. Pesano ancora oggi su di essa i giudizi negativi dell’Unione Europea, prima di tutto sulla mancanza di democrazia, e sembra che questi giudizi si ripetano ancora. Naturalmente la storia è solo uno degli elementi dell’interpretazione, accanto alle teorie giuridiche o al metodo comparativo con il quale risaltano le somiglianze e le differenze con le altre costituzioni europee. L’articolo intende presentare i diversi periodi delle costituzioni ungheresi, perché così sarà possibile capire lo spirito e il senso storico della costituzione e della dottrina della Sacra Corona che riappaiono nel Preambolo della Legge Fondamentale.
 
IMPORRE LA CULTURA EUROPEA AGLI EUROPEI.
di Ivan Buttignon*
 
Venezia Giulia, 1945-1954. Il fantomatico Territorio Libero di Trieste è diviso tra Zona A, occupata dai britannici e dagli statunitensi, e la Zona B, dagli jugoslavi. Specificamente nella prima, l’impronta alleata s’imprime in tutto il suo senso politico ma soprattutto culturale: Trieste deve diventare democratica, occidentale, europea; con le buone o con le cattive. La Venezia Giulia, o meglio quella piccola quota del territorio giuliano rimasta nell’area occidentale, rifiuta di venire standardizzato dalla logica anglo-americana e di diventarne serva. Il saggio insiste sulle trame sia politiche che, a maggior ragione, culturali che incombono sulla Zona A in termini di contrapposizione tra un governo alleato che specula sulle difficoltà di riorganizzazione politica, economica e sociale, implementando ricette formalmente democratiche ma che de facto creano maggiori e più profonde disuguaglianze, e il cosiddetto fronte filoitaliano, stremato per la sempre più carente rappresentanza italiana sia nella Zona B, dove la situazione assume i tratti della persecuzione antitaliana, sia nella Zona A.
 
CRISI ECONOMICA EUROPEA E NUOVI MOVIMENTI SOCIALI
 
di Cristiano Procentese*
 
La crisi finanziaria globale di questi ultimi anni è stata l’elemento scatenante di una serie di crisi economiche, sociali e politiche. Gli Stati europei insistono nell’adottare politiche improntate al libero mercato e, contemporaneamente, a smantellare gli investimenti nello stato sociale. Aumentano le disuguaglianze e la povertà e, come se non bastasse, le banche hanno ridotto i prestiti alle famiglie e alle imprese. Le popolazioni locali, costrette a sopportare sacrifici odiosi e iniqui, si sentono sempre più estranee alla politica tradizionale. Fortunatamente, sta emergendo nei cittadini europei un’esigenza di passare dalla centralità dei mercati alla priorità dei propri diritti. Nuove forme di associazionismo si vanno affermando, tuttavia tali nuovi gruppi, pur con tutto il loro attivismo, oltre ad essere privi di un mandato democratico, appaiono assai eterogenei per ambito di interesse e ancora lontani dall’idea di democrazia partecipativa.
 
LE DIFFICILI RELAZIONI USA-PAKISTAN

 di Silvia Bettiol
 
Le relazioni tra il Pakistan e gli Stati Uniti sono iniziate durante la guerra fredda, quando i due Paesi si sono alleati per sconfiggere i sovietici in Afghanistan. Dopo l’11 settembre del 2001 tuttavia i due Stati non possono più essere considerati alleati. Gli interessi nazionali pakistani e quelli statunitensi si scontrano continuamente, rendendo difficili le relazioni tra Washington e Islamabad che, nonostante le divergenze, sono oggi costretti a collaborare per cercare di gestire ciò che hanno involontariamente creato con le loro decisioni durante gli anni Ottanta.
 
RECENSIONE di: Giulietto Chiesa, Invece della catastrofe (a cura di Renato Pallavidini)
 

Incontro a Verona: “La primavera araba: impatto sui paesi mediterranei tra politica, costituzionalismo e flussi migratori”

L’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani presenta (Verona):
Seminario
“La primavera araba: impatto sui paesi  mediterranei tra politica, costituzionalismo e flussi migratori”
Venerdì 04 luglio 2014 
Ore 15 – 17

Aula “Betti” 
Chiostro S. Maria delle Vittorie 
Lungadige Porta Vittoria 41 – Università di Verona

Saluti introduttivi 
Dott. Andrea La Luce (Segretario ADI Verona)

Interventi programmati
Dott. Ali Reza Jalali 
Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale – esperto dei paesi islamici (Università di Verona)

Dott. Elton Xhanari 
Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale – esperto di multiculturalismo e immigrazione (Università di Verona)

Per informazioni: dottorandi.univr@gmail.com 
PARTECIPAZIONE LIBERA ED APERTA A TUTTI GLI INTERESSATI (NEI LIMITI DELLA 
DISPONIBILITA’ DI POSTI)

Grazie al contributo dell’Università degli Studi di Verona

martedì 24 giugno 2014

Come gli USA dovrebbero mantenere il primato in Eurasia. L'analisi di Friedman su Ucraina e Iraq


 
 
Propongo ai lettori del blog questa sintesi di un articolo del noto analista americano George Friedman, pubblicato da “Stratfor”. Emerge dal pensiero dell’autore un dato evidente della politica americana e l’oggettiva grande capacità di Washington di giostrare in modo accurato nelle varie crisi internazionali. In ciò l’amministrazione Obama, nonostante alcuni limiti, dimostra molta più capacità di quella precedente. Interessante poi il parallelismo tra la situazione irachena e quella ucraina. Friedman consiglia ai dirigenti americani di non intervenire militarmente, evitando inutili rischi e costi di un’azione di quel tipo, ma suggerisce, da raffinato analista, di approfittare delle naturali contrapposizioni dettate dai fattori geopolitici e etnico-confessionali, che sono oggettivi, per incanalare gli eventi nella direzione caldeggiata da Friedman, quella, in generale, che vuole gli USA come principale potenza mondiale.

Ali Reza Jalali  

 

Nelle ultime settimane alcuni problemi del sistema internazionale sono riemersi. Abbiamo visto che il destino dell'Ucraina non è ancora risolto, e con questo, non è risolto nemmeno il rapporto della Russia con la penisola europea. In Iraq abbiamo appreso che il ritiro delle forze statunitensi e la creazione di un nuovo sistema politico non ha risposto alla domanda di come le tre anime del paese possano convivere. Ergo, le situazioni geopolitiche raramente si risolvono ordinatamente o permanentemente. Questi eventi, infine, pongono una questione difficile per gli Stati Uniti. Negli ultimi 13 anni, gli USA sono stati impegnata in una vasta guerra in due grandi teatri - e altri minori minori - nel mondo islamico. Gli Stati Uniti sono grandi e potenti abbastanza per sopportare tali conflitti prolungati, ma dato che le guerre non si sono concluse in modo soddisfacente, la voglia di alzare il limite di sopportazione per un eventuale  coinvolgimento militare ha un senso logico. Il discorso del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama presso l’Accademia Militare di West Point ha cercato di alzare il livello della guardia dei militari. Tuttavia, non era chiaro nel discorso il significato in termini pratici di quanto è stato detto:

“Ecco il punto centrale: l'America deve sempre avere il primato sulla scena mondiale. Se non lo facciamo noi, nessun altro lo farà. L’esercito al quale avete aderito è, e sempre sarà, la spina dorsale di questa leadership. Ma l'azione militare degli Stati Uniti non può essere l’unica o la sola componente del nostro primato. Avere il martello migliore non vuol dire che ogni problema è un chiodo.”

Dati gli eventi in Ucraina e in Iraq, la definizione del presidente di “chiodo” e di “martello”, in relazione ai militari degli Stati Uniti diventa importante. Le operazioni militari che non possono avere successo, o possono avere successo solo con un tale sforzo esorbitante che esaurisce la macchina bellica, sono irrazionali. Pertanto, la prima cosa da valutare in qualsiasi strategia in Ucraina o in Iraq è la sua praticabilità.

La crisi in corso in Ucraina

In Ucraina, un presidente filo-russo è stato sostituito da un presidente filo-occidentale. I russi hanno preso il controllo formale della Crimea, dove avevano sempre avuto il potere militare, grazie a un trattato con l'Ucraina. I gruppi pro-russi, apparentemente sostenuti da Mosca, lottano ancora per un controllo in due province orientali dell'Ucraina. In superficie, i russi hanno subito un'inversione in Ucraina. Se questo è veramente un capovolgimento dipenderà dal fatto che le autorità di Kiev sono in grado di governare l'Ucraina, che significa non solo la formazione di un governo coerente, ma anche di far rispettare la sua volontà. La strategia russa è quella di utilizzare l'energia, la finanza e le relazioni palesi e segrete per minare il governo ucraino e usurpare il suo potere. E' nell'interesse degli Stati Uniti che emerga una leadership filo-occidentale in Ucraina, ma l'interesse non è abbastanza schiacciante per giustificare un intervento militare degli USA. Non vi è alcuna struttura di alleanze in grado di sostenere un simile intervento, e non importa quanto indebolita sia la Russia; in ogni caso gli Stati Uniti sarebbero costretti a promuovere, in un paese vasto, una occupazione, e regolare l'amministrazione - anche se possibile - sarebbe un compito enorme. Gli americani poi combatterebbero lontani da casa, mentre i russi no. L'Ucraina non è quindi un “chiodo” da poter essere “martellato”. Gli Stati Uniti devono adottare una strategia indiretta. Il luogo in cui possono agire per influenzare gli eventi è nei paesi confinanti con l'Ucraina - in particolare Polonia e Romania. Questi paesi sono molto preoccupati per gli eventi di Kiev e saranno anche loro costretti a resistere all’aggressività russa come è accaduto nel secolo scorso; proprio qui devono intervenire gli USA, a sostegno dei timori di queste nazioni.

Le complessità dell'Iraq

L’Iraq è costituito da tre grandi gruppi: sciiti, sunniti e curdi. Gli Stati Uniti hanno lasciato l'Iraq nelle mani del governo dominato dagli sciiti, che non è riuscito ad integrare i curdi e sunniti. La strategia curda era quella di creare e mantenere una regione autonoma. I sunniti hanno tentato di costituire una forza rilevante nella loro regione e aspettare il momento opportuno. Quel momento è venuto quando, dopo le recenti elezioni, il premier iracheno Nouri al-Maliki non è riuscito a formare rapidamente un nuovo governo. I sunniti allora sono entrati in azione, prendendo il controllo delle zone di loro pertinenza confessionale e in qualche misura hanno cercato di coordinare le attività in tutta la regione. Essi non hanno attaccato la regione curda o le zone a predominanza sciita. Successivamente, gli sciiti hanno cominciato a mobilitarsi per resistere ai sunniti. Quello che è accaduto è il fallimento del governo centrale e l'affermazione del potere regionale. Non c'è alcun potere autoctono che può unire l'Iraq, in quanto nessuno ha abbastanza forza per farlo. Forse solo un intervento americano potrebbe riportare l’ordine. Come in Ucraina però, non è chiaro se gli Stati Uniti abbiano un interesse immediato a fare ciò. La rivolta sunnita porta con sé il rischio di un aumento del terrorismo e, ovviamente, dà ai terroristi una base da cui partire per condurre attacchi contro gli Stati Uniti. Con questa logica, gli Stati Uniti dovrebbero intervenire a favore dei curdi e degli sciiti. Il problema è che gli sciiti sono legati agli iraniani, e mentre gli Stati Uniti e l'Iran sono attualmente coinvolti in trattative sempre più complesse, ma promettenti, il focus è ovviamente sugli interessi e non sull'amicizia. L'invasione del 2003 si basava sul presupposto che gli sciiti, liberati da Saddam Hussein, sarebbero divenuti docili con gli Stati Uniti e avrebbero permesso di rimodellare l'Iraq in base ai desiderata di Washington. E’ subito emero però che gli sciiti iracheni, insieme ai loro alleati iraniani, avevano piani diversi. L'invasione degli Stati Uniti non è riuscita infine a creare un governo coerente in Iraq e ha contribuito a creare la circostanza attuale. Gli USA potrebbero intervenire nuovamente, ma il problema al momento non è militare, ma politico. Questo, naturalmente, lascia la possibilità di un aumento della minaccia del terrorismo. Ci sono 1,6 miliardi di musulmani nel mondo, e alcuni di loro sono pronti a impegnarsi in attività terroristiche. È estremamente difficile, tuttavia, capire che sono inclini a farlo. E' anche impossibile conquistare 1,6 miliardi di persone in modo da eliminare la minaccia del terrorismo. Sconfiggere un esercito nemico è molto più facile che occupare un paese il cui unico modo di resistere è il terrorismo. Un rischio grave in Iraq è poi che se le regioni sunnite diventano autonome e il loro governo non promuove la lotta alle componenti estremiste, il caos aumenterà. I curdi, i sunniti e gli sciiti sono ostili gli uni agli altri. Saddam controllava il paese attraverso l'apparato istituzionale laico del partito Baath. In mancanza, le tre comunità continuano ad essere ostili gli uni agli altri, così come la comunità sunnita in Siria è ostile agli alawiti. Gli Stati Uniti potrebbero promuovere allora questa tattica: mantenere l’Iraq tripartito, come adesso, non intervenendo direttamente, lasciando così le varie fazioni a contenersi vicendevolmente.

L'utilizzo limitato del “martello” da parte degli Stati Uniti

Per gli USA la situazione in Iraq e Ucraina è simile da un solo punto di vista: non si può intervenire militarmente. Invece, si deve agire con la forza indiretta utilizzando gli interessi e le ostilità delle parti coinvolte. Ciò lo si farà sostenendo fazioni che sono di interesse a Washington. In Ucraina, questo significherebbe sostenere gli ex Stati satelliti sovietici dell'Europa centrale. In Iraq, ciò significherebbe applicare una forza sufficiente per impedire l'annientamento di uno qualsiasi dei tre principali gruppi del paese. Anche in passato gli USA hanno utilizzato una strategia simile, ovvero ai tempi di Eisenhower. Solo chi conosce la guerra è a conoscenza del fatto che essa può essere utilizzata solo se si è quasi certi della vittoria, altrimenti è meglio una strategia volta all’attesa. Gli USA non hanno fretta in Ucraina e nemmeno in Iraq.

 

venerdì 13 giugno 2014

Da ovest una nuova minaccia per l’Iran

Miliziani dello Stato Islamico in azione in Iraq
 
Ali Reza Jalali
L’attenzione mediatica si è concentrata sulla situazione irachena negli ultimi giorni, per via della clamorosa avanzata del gruppo denominato Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, cartello che riunisce alcuni movimenti salafiti che operano tra la Siria e l’Iraq, col dichiarato obiettivo di costituire un governo basato sulla sharia a cavallo dei due paesi arabi.
Lo Stato Islamico si è costituito grazie ad una sinergia tra gruppi sparpagliati, con una origine diversa dal punto di vista dell’appartenenza nazionale, ma che hanno in comune la volontà di sconfiggere il “pericolo sciita” nelle sue varie forme, dal governo alawita damasceno a quello duodecimano di Baghdad. Nei proclami ufficiali dell’organizzazione si nota l’odio viscerale nei confronti di questa confessione islamica; recentemente in un comunicato lo Stato Islamico si è autoproclamato continuatore dell’opera della dinastia Omayyade, nota tra gli sciiti per essere stata artefice di molte persecuzioni settarie.
Lo Stato Islamico finanziariamente e militarmente è sostenuto prevalentemente dall’Arabia Saudita, ma ha ottenuto importanti aiuti anche dalla Turchia, paese membro della NATO. In Iraq e in Siria in questi anni il gruppo ha lavorato in modo diverso: in Iraq c’è stato un progressivo avvicinamento tra gli islamisti dello Stato Islamico e alcune tribù sunnite dell’ovest, in passato vicine al regime di Saddam e del Partito Baath. Lo Stato Islamico e queste fazioni sunnite dell’Iraq occidentale collaborano in nome della comune preoccupazione riguardo al “pericolo sciita e iraniano”.
In ciò il governo di Baghdad guidato da Maliki è sostanzialmente accusato di essere l’uomo degli iraniani in Iraq. In Siria il gruppo invece si è caratterizzato per un rapporto molto complicato con le altre anime dell’opposizione anti-Assad. Da un lato i Fratelli Musulmani (Esercito Libero) giudicano quelli dello Stato Islamico troppo radicali, d’altro canto Al-Nusra, un’altra formazione salafita, giudica lo Stato Islamico negativamente per via del progetto “internazionalista” volto a unire l’Iraq e la Siria, mentre Al Nusra mantiene, se pur anch’essa formata da miliziani di varie nazionalità, una linea più legata alla lotta sul suolo siriano.
L’avanzata improvvisa dei salafiti “internazionalisti” in Iraq è dovuta a diversi fattori: sicuramente il supporto regionale al movimento, in funzione anti-Maliki, per indebolire l’asse Iran-Iraq-Siria (è bene ricordare che l’Iraq è stato l’unico tra i principali paesi arabi, almeno fino alla caduta di Morsi in Egitto, a non osteggiare Assad, tenendo ufficialmente una posizione di non allineamento sulla situazione siriana) è una questione importante, ma senza il tradimento di alcuni generali dell’esercito iracheno, responsabili della difesa di alcune città, come Mousul, nel nord del paese, l’avanzata non sarebbe stata così importante.
Infatti, alcuni dirigenti di spicco dell’esercito iracheno, non hanno opposto alcuna resistenza all’arrivo degli islamisti in alcune zone dell’Iraq settentrionale; ciò rientra perfettamente nella sinergia anti-sciita e anti-iraniana creatasi tra islamisti sunniti e ex baathisti. Infatti i generali disertori erano tutti ex membri del disciolto partito, ai tempi guidato da Saddam. Lo scontro in atto in Iraq è interpretabile, purtroppo, anche come uno scontro epocale tra sciiti e sunniti, ormai contrapposti su diversi scacchieri, dal Libano all’Iraq, passando per la Siria.
Detto ciò, non possiamo nemmeno negare il tentativo di conciliazione promosso dai capi religiosi di ambo le parti. Le immagini che arrivano dall’Iraq in questo senso parlano chiaro. Giovani di tutto il paese, sciiti e sunniti, si stanno in massa iscrivendo nelle milizie popolari, con l’intento di bloccare l’avanzata integralista.
La situazione è evidentemente complessa e le notizie discordanti non aiutano alla comprensione reale degli eventi, ma le reazioni regionali ufficiali non mancano: gli alleati del governo iracheno, principalmente gli iraniani e i libanesi di Hezbollah, hanno fatto sapere che in caso di necessità interverranno. Indiscrezioni rivelano che vi sarebbe già una presenza iraniana in Iraq, come non mancherebbero elementi sauditi a sostegno dello Stato Islamico.
Anche il governo USA ha espresso solidarietà a Maliki, smentendo però un coinvolgimento diretto. Gli Stati Uniti sono alleati dell’Iraq, fornendo armi e addestramento all’esercito di Baghdad. L’Iraq è un paese particolare, un amico degli USA e della Russia, alleato dell’Iran, vicino alla Siria, osteggiato da Erdogan, dagli islamisti sunniti, dai Fratelli Musulmani ai salafiti, odiato dai Sauditi.
L’Iraq è un paese caratterizzato dall’ambiguità: un po’ con gli USA, un po’ con gli avversari regionali degli USA. Un po’ sunnita, un po’ sciita. Un po’ arabo, un po’ curdo. Un generale iraniano disse: “L’Iraq è il paese dei Saddam”, nel senso che pur non essendoci più Saddam, arci-nemico dell’Iran, potrebbero sempre emergere, per via della storia controversa di quell’area, nuovi nemici dell’Iran, che ciclicamente da quella terra emergono. Lo Stato Islamico, alleandosi con elementi del vecchio Baath, sembra la realizzazione della profezia del generale iraniano. Non bisogna in questo senso sottovalutare le aperture ai regimi della penisola araba fatte dai famigliari di Saddam, così come da ex dirigenti iracheni di alto rango, come l’ex collaboratore di Saddam, Al Douri.   
A Tehran si vive con ansia quello che sta accadendo in Iraq; nei giorni scorsi alcuni siti riferivano di piani dell’esercito iraniano in caso dell’eccessivo avvicinamento dei salafiti “internazionalisti” ai confini della Repubblica Islamica. Gli analisti militari comunque sottolineano il fatto che in caso di emergenza l’intervento ci sarà già in territorio iracheno. Di certo a Tehran non hanno voglia di vedere, a distanza di 34 anni, una nuova invasione da ovest.    

martedì 3 giugno 2014

In memoria di un grande leader, l'imam Khomeyni

Ruhollah Khomeyni: lo “spirito di Dio” nel XX secolo
 
 
 
Ali Reza Jalali
 
 
 
Nel giugno del 1989 scomparve una delle figure più affascinanti del Novecento, l’imam Khomeyni, guida politica e spirituale della Rivoluzione islamica iraniana del 1979. Questo grande intellettuale, sapiente e gnostico, ha saputo coniugare impegno politico, mistico ed etico come pochi, attirando l’attenzione di persone di diverse culture in tutto il mondo.
 
Quando si chiede agli studiosi, chi sia stato il più importante personaggio politico del Novecento, le risposte, in base alle varie sensibilità, potrebbero essere molto diverse. Normalmente, i nomi delle guide politiche sono collegati a degli avvenimenti storici epocali e a dei cambiamenti sociali senza precedenti. Nel linguaggio politico, una svolta sociale, economica, politica, giuridica, culturale e spirituale senza precedenti è definita come “rivoluzione”. Quando ero un liceale, ebbi la fortuna di leggere un libro di René Guénon dal titolo suggestivo: La crisi del mondo moderno (1). La prefazione del libro era stata curata da Julius Evola, che in quell’occasione descrisse in modo esemplare il concetto di “rivoluzione”.
 
Secondo Evola la parola “rivoluzione” può avere due significati: uno “esteriore” ed uno “nascosto”. Il primo significato è quello comunemente ritenuto valido, ovvero un “cambiamento brusco e violento della struttura politica e sociale dello Stato” (2). Ma il pensatore italiano si concentrò soprattutto sul significato “esoterico”, ovvero quello legato all’interpretazione di “rivoluzione” non in un ambito politico e “mondano”, ma spirituale, legato, per certi aspetti, alla “rivoluzione” dei corpi celesti. In questo senso, la “rivoluzione” è un percorso che inizia in un punto specifico, e dopo il compimento di un percorso ordinato e armonioso, si conclude nello stesso punto di partenza (come ad esempio, i moti di “rivoluzione” della Luna intorno alla Terra, o della Terra intorno al Sole). Quindi una “rivoluzione” che premia non il “cambiamento”, radicale o meno, ovvero una “modernizzazione”, bensì una “rivoluzione” nel solco della “tradizione”. Con questo punto di vista, una vera rivoluzione non consiste solo in un cambiamento della struttura sociale e politica, come lo sono state la Rivoluzione francese del 1789 o quella americana di poco precedente, ma soprattutto il “ritorno” ad un punto di partenza mistico e spirituale. In questo senso, l’Origine di tutto è l’Essere Primordiale, lo Spirito di Dio. Se questa è l’ottica gnostica per un’analisi completa del significato di rivoluzione, allora l’unica “vera” rivoluzione novecentesca è stata quella islamica in Iran, nel 1979. E se volessimo fare il nome di un personaggio politico che ha cambiato le sorti dell’umanità nel XX secolo, saremmo costretti a fare il nome della guida di quella rivoluzione iraniana, l’Ayatollah (3) Ruhollah (4) Khomeyni.
 
In questi giorni ricorre l’anniversario della sua morte, avvenuta nel giugno del 1989. L’evento funebre rappresentò uno degli spettacoli sociali e spirituali più importanti del Novecento; infatti, quando agli iraniani arrivò la notizia della morte del loro amato “imam” (5), iniziò un movimento spontaneo, da diverse zone del Paese e della capitale Tehran, di milioni di individui verso i luoghi della vita della loro guida, dalla sua umile dimora a Jamaran, nella periferia settentrionale della capitale iraniana, fino al cimitero “Beheshte Zahra”, dalla parte opposta di Tehran. Il viaggio mistico e politico dell’imam Khomeyni, almeno dal 1979, era iniziato proprio in questo cimitero, dove egli era andato, appena tornato dall’esilio all’estero, per commemorare i martiri della rivoluzione. Anche questo processo “rivoluzionario”, nel senso evoliano del termine, di ritorno al punto di partenza, dimostra la grandezza dell’Ayatollah Khomeyni. Ma egli non era solo un uomo politico, che presentando un modello spirituale, tradizionale e teocentrico aveva sconvolto il mondo bipolare di allora, basato sull’apparente contrapposizione di due ideologie moderne e laiche (se non atee) quali il capitalismo liberale e il marxismo, per certi aspetti “due facce della stessa medaglia” (6).
 
L’imam Khomeini: “hakîm” del nostro tempo
 
Spesso in Occidente si parla delle idee politiche dell’Ayatollah Khomeyni, ma si trascura il fatto che egli, prima di essere un uomo politico, era un grande gnostico, un filosofo, un giurista, un poeta e un artista. In ambito iranico, i sapienti dell’antichità erano chiamati “hakîm”; l’appellativo di hakîm (saggio) veniva concesso agli scienziati che avevano il pregio di essere dotti in diversi ambiti, non solo, ad esempio, in filosofia, teologia, giurisprudenza o nelle scienze sperimentali, ma in tutte le scienze contemporaneamente. Per esempio, Avicenna (980-1037), nativo della regione del “Grande Khorasan” (Asia centrale) e morto a Hamadan (odierno Iran occidentale), era soprannominato appunto “hakîm” perché oltre a essere un filosofo di altissimo rango era anche un noto e famoso medico (celebre il suo libro “Il Canone”, considerato all’avanguardia anche in Europa fino a tutto l’Ottocento). Dire quindi che l’imam Khomeyni sia stato un “hakîm” del nostro tempo non è un’esagerazione, visto che egli era competente in diverse scienze. Nei suoi libri e nei suoi discorsi si rintracciano infatti aspetti importanti delle sue conoscenze, anche se l’Ayatollah, per via di una grande umiltà, non amava esibire troppo il proprio sapere. La sua umiltà era una delle caratteristiche della sua grandezza. In un suo discorso disse:
“Lo giuro su Dio, io non ho ancora avuto l’onore di eseguire due rak‘at (7) di preghiera per la causa di Dio, ma tutto quello che faccio, purtroppo, è per amore del mondo”.
Una frase del genere, detta da un uomo qualunque non sarebbe nulla di clamoroso. Ma se a proferirla è un uomo colto, sapiente, mistico di livello immenso come l’imam Khomeyni, si può comprendere l’umiltà di questo “rivoluzionario”, non solo per questioni politiche, ma principalmente per la sua forza spirituale, che ha affascinato molte persone, amici e nemici, tutti concordi sull’immensità dell’”imam della comunità” (8).
 
Il grande “jihâd”
 
L’aspetto in assoluto più interessante dell’insegnamento dell’imam riguarda il fatto di coniugare l’impegno sociale e politico con l’etica e la morale. In un’epoca in cui si parla tanto di “Stato laico”, l’imam rivendicava con forza la necessità che la politica non si dividesse dall’etica, in quanto la militanza senza etica si trasforma spesso, come la storia del Novecento ci insegna, in massacri, guerre e distruzione. Ovviamente anche la religione può essere accompagnata da violenza, ma l’esperienza insegna che senza etica, lo sterminio è una cosa normale. Le guerre mondiali nel XX secolo, che hanno visto lo scontro tra ideologie “moderne” e “laiche”, hanno lasciato sul campo decine di milioni di vittime, cosa che le guerre di religione non avevano mai fatto, almeno per ciò che concerne la quantità dei morti. L’imam Khomeyni amava spesso ripetere una tradizione del profeta Muhammad:
 
“Torniamo vincitori da un piccolo jihâd, e ci apprestiamo a combattere un grande jihâd”. (9)
Secondo l’interpretazione dell’imam, in questa tradizione il Profeta dell’Islam ha voluto sottolineare come la guerra propriamente detta, l’impegno politico e sociale, siano cosa secondaria rispetto alla “grande guerra” che ogni essere umano deve intraprendere per controllare i propri istinti animali che lo allontanano dalla Via di Dio. Un impegno politico senza l’autocontrollo porterebbe infatti l’uomo su una via già percorsa da molti famosi “rivoluzionari” che prima di ottenere il potere si comportano in modo impeccabile, ma una volta preso il controllo della “cosa pubblica” il loro comportamento diviene addirittura peggiore dei loro predecessori. Il caso emblematico è la Rivoluzione francese, contraddistinta da grandi violenze e usurpazioni, in nome della “Dea Ragione”. I giacobini, a forza di massacrare i loro oppositori, finirono per essere più odiati del monarca dispotico che avevano in precedenza combattuto. Nel pensiero dell’imam, quindi, lo sforzo mistico per raggiungere uno stato di autocontrollo quasi totale (grande jihâd) è più importante della politica, almeno intesa in senso secolare. Più volte l’Ayatollah ha ribadito la sua totale convinzione riguardo a ciò; non solo in ambito politico, ma anche per le conoscenze scientifiche. Egli in un famoso discorso disse:
 
“La scienza deve essere accompagnata dall’etica; una scienza senza etica è pericolosissima. Se dovessi scegliere tra le conoscenze scientifiche senza l’etica o l’etica senza la conoscenza, sceglierei sicuramente la seconda via”.
Come non condividere una tale analisi, alla luce dei massacri compiuti per mezzo ed in nome di una scienza “moderna” che non è accompagnata da un’etica a misura d’uomo? Tale questione, sollevata da questa grande figura di “rivoluzionario” misconosciuta in Occidente, resta a tutt’oggi di fortissima attualità.
 
 
NOTE:
 
(1) René Guénon, La crisi del mondo moderno, (trad. it.) Edizioni Mediterranee, Roma 1972.
(2) Giuseppe Pittano, Dizionario italiano, Gulliver, Chieti 1995.
(3) Quella di Ayatollah, letteralmente “segno di Dio”, è la più alta carica della gerarchia del clero in ambito islamico sciita.
(4) Ruhollah, il nome di “battesimo” dell’Ayatollah Khomeini, vuol dire letteralmente “Spirito di Dio”, e in ambito islamico è il soprannome di Gesù Cristo.
(5) Nell’islam sciita, il concetto di “imam” (letteralmente “colui che sta avanti”) implica non solo, come in ambito sunnita, la persona che guida la preghiera congregazionale o un esperto di scienze islamiche, ma soprattutto la guida politica e spirituale della comunità dopo il profeta Muhammad, ovvero i dodici “imam immacolati” della tradizione sciita (per questo gli sciiti sono anche definiti “duodecimani”). Nel caso dell’Ayatollah Khomeyni, però, rappresenta più che altro un titolo che vuole sottolineare, da un lato, la grandezza della personalità dell’imam, dall’altro, il forte legame spirituale e affettivo che lo legava alla sua gente.
(6) Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Marsilio, Venezia, 2002.
(7) La “salât”, l’orazione rituale islamica, obbligatoria per i musulmani e da eseguirsi cinque volte al giorno in momenti stabiliti in base al movimento apparente del sole, è composta da un numero variabile, a seconda della preghiera, di “unità di misura” definite “rak‘at”, che a loro volta comprendono una serie prestabilita di formule e movimenti. Ad esempio la preghiera del mattino è composta da due rak‘at, quella di mezzogiorno da quattro rak‘at ecc. Dire di non aver effettuato neanche due rak‘at per la causa di Dio, vuol dire di non essere degno di un certo rango elevato. Quanta umiltà in questo grande uomo! Cosa dovremmo dire allora noi persone comuni, che non appena compiano un’azione positiva pensiamo di aver raggiunto chissà quale “stazione divina”… Non a caso un grande sapiente dell’antichità come Socrate diceva: “L’unica cosa che conosco è che non conosco nulla”.
(8) Uno dei tanti appellativi dell’Ayatollah Khomeyni (in persiano “emam-e ommat”).
(9) Gli “ahâdîth”, ovvero le tradizioni e i racconti riferiti all’”esempio virtuoso” del Profeta Muhammad, sono tra le principali fonti delle scienze islamiche in generale e del diritto islamico (“fiqh”) in particolare. Questa specifica tradizione è riferita ad una battaglia condotta dai musulmani di Medina contro i politeisti meccani, nella quale la fazione del profeta Muhammad aveva prevalso. Il Profeta vedendo molta allegria e anche un certo atteggiamento vanaglorioso da parte dei suoi soldati, pronunciò questa frase per far capire che la guerra contro i nemici è nulla in confronto alla battaglia per l’autocontrollo, quella contro il proprio ego. Sul concetto di “jihâd” poi andrebbero dette molte altre cose, ma qui bisogna sottolineare come spesso in Occidente vi sia una traduzione sbagliata di questo termine. Letteralmente “jihâd” vuol dire “sforzo”, inteso come “sforzo per la causa di Dio”; qualsiasi opera che venga posta in essere con l’intento di compiacere il creatore è “jihâd”, dunque non solo la guerra contro un ipotetico nemico della comunità islamica che abbia intrapreso un’azione militare contro i musulmani, ma anche e soprattutto questioni come scrivere un libro per compiacere il Creatore, giocare con i propri figli per amore del Compassionevole, parlare gentilmente con le persone come segno di devozione all’Altissimo, sono tutte delle forme di jihâd. Anzi, di “grande jihad”.

http://www.eurasia-rivista.org/ruhollah-khomeyni-lo-spirito-di-dio-nel-xx-secolo/16089/

Per maggiori informazioni vedi:

http://www.ilcerchio.it/il-governo-islamico-o-l-autorita-spirituale-del-giuriconsulto.html

domenica 1 giugno 2014

Analisi sul Medio Oriente. Resoconto video di una conferenza

Analisi geopolitica del contesto mediorientale odierno, delle destabilizzazioni indotte come le recenti primavere arabe e qualche accenno sulla cultura islamica in particolare riferiti alla corrente sciita.
 
Resoconto video di una conferenza a Bologna il 17 maggio 2014.
 
 
 
 
 
 
 

Belgio, arrestato in Francia presunto attentatore museo ebraico. Era un reduce dal jihad in Siria



Ali Reza Jalali
 
Sarà banale ribadirlo, ma l'avevo detto. Il crimine commesso da un "francese" di origine araba in Belgio, almeno così come la vicenda è stata presentata dai principali media, vedi ad esempio l'articolo su "La Repubblica" (1), dimostra che le mie preoccupazioni degli ultimi anni non erano poi così superficiali.

Ho passato gli ultimi anni a denunciare il sostengo, diretto o indiretto che fosse, della ribellione in Siria da parte dei governi europei. La preoccupazione più grande era quella riconducibile all'incredibile libertà che avevano avuto gli integralisti islamici in Europa, ad organizzare reti clandestine di reclutamento per la Siria, dove i jihadisti nostrani andavano a combattere in nome della loro fede, contro il governo siriano, giudicato eretico in quanto il presidente della Repubblica siriana, Bashar Assad, è un alawita (ramo dell'Islam sciita), ovvero appartenente ad una minoranza musulmana, giudicata dagli integralisti come setta ereticale.

Avevo lanciato l'allarme più volte, bastava farsi un giro nelle cosiddette moschee in Italia, per capire che aria tirava e quanto fosse profondo l'odio di una parte consistente degli islamici per Assad. Le autorità avevano il dovere di vigilare, ma spesso, per via della presa di posizione contraria al regime siriano da parte dell'UE, presa di posizione irrazionale, considerando che l'alternativa ad Assad non è mai stata la democrazia, ma l'integralismo islamico, responsabile di crimini inimmaginabili in tutto il Medio Oriente contro i cristiani, ma non solo, c’è stata una clamorosa negligenza, che ha portato alla fine a quello che temevo, ovvero che una volta ridimensionata la spinta dei jihadisti europei in Siria, questi avrebbero fatto ritorno qui, a continuare il proprio jihad, stavolta non più contro gli eretici e gli infedeli del Medio Oriente, ma contro gli infedeli occidentali, ebrei o cristiani che siano.

Infatti il presunto attentatore di Bruxelles, era un miliziano in Siria, combattente anti-Assad, a quanto pare, da poco rientrato dal Medio Oriente. Non è la prima volta che ci sono notizie di combattenti europei in Siria; proprio l’anno scorso, esattamente a giugno, riportavo quanto segue:

“Un sito di recente ha riportato la vicenda in questi termini: “Dimitri Bontinck è un ex militare belga di 38 anni. Lo scorso maggio ha lasciato Anversa per cercar di ritrovare Jojoen, il figlio 18enne scomparso tra le nebbie del conflitto siriano. A 15 anni (Jojoen) incontra una ragazza marocchina musulmana che gli passa qualche spinello e se lo porta in moschea. Sembrano le solite cose da ragazzini, ma in moschea Jojoen incontra un gruppo di fanatici. Da quel momento lo vediamo cambiare sotto i nostri occhi (è il padre che racconta).” Alla domanda del giornalista de “Il Giornale”, che chiede al padre del ragazzo belga convertitosi all’islam salafita e radicale, come egli abbia raggiunto la Siria per adempiere a questa sorta di obbligo religioso, troviamo la seguente risposta: “Mi racconta che vuole studiare l’islam e l’arabo in Egitto e io scemo gli mollo i soldi. A marzo sento di un ragazzo andato a combattere in Siria e mi si accende una lampadina. Allora cerco su internet tutte le foto di stranieri passati con i ribelli siriani fino a quando non lo trovo.” E’ chiaro ed evidente che atteggiamenti del genere non sono solo una minaccia per i paesi mediorientali, che sono direttamente coinvolti in queste guerre, ma anche per l’Europa, dove si trovano potenzialmente molti “Jojoen”.” (2)

E ancora:

“Recentemente anche l’Italia ha dovuto scoprirsi paese di origine di un integralista islamico andato a combattere contro il governo, il popolo e l’esercito siriano. Giuliano Delnevo infatti, è morto in Siria qualche giorno fa, ucciso presumibilmente dalle forze governative siriane. Egli era originario della Liguria e, secondo alcuni, era un assiduo frequentatore di siti internet e forum collegati all’estremismo islamico e al salafismo. Inquietante il fatto che la principale organizzazione dei musulmani in Italia, l’UCOII, abbia definito Delnevo un “caduto”. Ora la magistratura sta indagando. Su un sito leggiamo quanto segue sulla vicenda: “Giuliano Delnevo era anche un reclutatore. È questa l’ipotesi di reato formulata dalla procura di Genova nei confronti del 24enne morto in Siria affianco ai ribelli che combattono contro Assad. Secondo le indagini, infatti, il giovane sarebbe riuscito a convincere 3 maghrebini e un italiano anche lui convertito all’Islam. Delnevo, secondo quanto appreso, compiva opera di reclutamento utilizzando anche le prediche sul web e attraverso un blog. Per tutti gli indagati i reati ipotizzati sono gli stessi di Delnevo. Le indagini coordinate dai pm distrettuali Silvio Franz e Nicola Piacente sono affidate alla sezione terrorismo della digos di Genova”.” (3)

Ovviamente la situazione può anche degenerare, è bene stare in guardia e ora nessuno ha più scuse, visto la gravità del fatto. Da un lato c’è da sperare che i jihadisti europei in Siria vengano fermati dalle autorità siriane stesse, che hanno dimostrato negli ultimi anni molta serietà nella lotta al cosiddetto terrorismo islamico, almeno così lo chiamavano dopo l’11 settembre; per il resto, nel malaugurato caso che ci fosse un rientro in Europa dei jihadisti, l’auspicio è che possano terminare le negligenze. Un duro colpo deve essere sferrato all’integralismo islamico, a cominciare dai centri di reclutamento, che spesso vedono un ruolo importante proprio negli imam operativi in Europa, che attraverso le (presunte) moschee, adescano estremisti per mandare in operazioni terroristiche in giro per il mondo. La Siria in ciò ha fatto e sta facendo il suo dovere, speriamo che anche in Europa le autorità si sveglino e fermino questi pazzi, nemici dell’occidente, ma anche dell’Islam (4).

 

 

1-      http://www.repubblica.it/esteri/2014/06/01/news/bruxelles_attentato_a_museo_ebraico_arrestato_sospetto_autore-87790230/ -  Mehdi Nemmouche, 29 anni, è stato fermato venerdì alla stazione ferroviaria marsigliese di Saint-Charles. Nel suo bagaglio un fucile Kalashnikov e una pistola dello stesso tipo di quella utilizzata nell'attentato del 24 maggio al Museo ebraico a Bruxelles, nel quale sono morte quattro persone.


3-      Ibidem  

4-      E’ bene ricordare che la maggioranza assoluta delle vittime del fondamentalismo islamico sono persone di religione musulmana, uccise quotidianamente negli attentati in Medio Oriente e altre zone.