sabato 21 dicembre 2013

Eurasiatismo e occidentalismo: correnti geopolitiche in Iran



Ali Reza Jalali



Il recente cambio di governo in Iran e l’oggettivo riposizionamento della politica estera di Tehran sono lo spunto per una interessane riflessione sui principali filoni geopolitici presenti nel paese mediorientale. Due sono le scuole di riferimento che hanno caratterizzato la sensibilità degli studiosi e dei politici, non solo negli ultimi decenni, ovvero dopo la rivoluzione del 1979, ma anche negli ultimi due secoli: la scuola “eurasiatista” e la scuola “occidentalista”.
La scuola o approccio eurasiatista in politica estera, ha fatto si che gli iraniani cercassero un’alleanza con le potenze orientali, principalmente la Russia, senza dimenticare l’attenzione per la Cina, anche se quest’ultimo paese è oggetto di interesse soprattutto negli ultimi 40-50 anni. Non a caso le relazioni diplomatiche ufficiali tra Iran e Cina risalgono, almeno in epoca moderna, al periodo della Guerra Fredda. Con la Russia invece il rapporto è stato ben diverso, anche perché al tempo degli Zar e poi anche dell’URSS, l’Iran aveva più di mille km di confine terrestre con il gigante eurasiatico, confine venuto meno solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, con la nascita a nord della Repubblica Islamica di nazioni indipendenti quali l’Armenia, l’Azerbaigian e il Turkmenistan. La “russofilia” di alcune cerchie dell’intellighenzia iraniana però, si è rafforzata soprattutto dopo la rivoluzione comunista di Lenin. Non pochi intellettuali iraniani, anche con incarichi istituzionali infatti, professavano simpatie marxiste, creando di fatto la base per una vicinanza tra Iran e URSS. Questa possibile alleanza fu però sempre ostacolata da un’altra corrente geopolitica e intellettuale molto forte, ovvero quella filo-occidentale.
Il filo-occidentalismo degli iraniani si esprimeva principalmente, almeno fino alla Seconda Guerra mondiale, in un filo-europeismo, basato sostanzialmente su tre filoni: gli anglofili, i francofili e i germanofili. In assoluto tra questi tre filoni quello anglofilo fu il più influente a livello politico e economico, mentre quello francofilo era più influente a livello culturale e giuridico. I germanofili invece iniziarono a crescere dopo la salita al potere di Hitler e l’avvento del nazismo. Gli intellettuali iraniani che avevano un approccio di simpatia nei confronti del pensiero nazionalsocialista erano affascinati dalla teorie razziali dei seguaci di Hitler, soprattutto per quello che riguarda l’esaltazione della razza ariana. In Iran poi questa idea veniva associata ad un forte odio nei confronti dell’Islam, in quanto questa religione era stata importata tra i popoli indoeuropei che abitavano l’altopiano iranico da genti semite (arabi), quindi da una razza inferiore, che mescolandosi con gli “ariani” dell’Impero Sasanide, avevano corrotto la purezza iranica e indoeuropea (ariana appunto). Queste idee si svilupparono molto in Iran e raggiunsero addirittura la famiglia reale dei Pahlavi. Reza Khan, pagò a caro prezzo la sua simpatia nei confronti di Hitler e la sua scelta di nominare un premier filo-tedesco in piena Seconda Guerra mondiale, gli costò la deposizione da parte di inglesi e russi.
In generale però, se volessimo semplificare, le due correnti principali che si fronteggiavano in Iran erano quella filo-inglese (occidentalismo) e quella filo-russa (eurasiatismo). Dopo la fine della Guerra mondiale e la creazione di un nuovo equilibrio globale basato sulla contrapposizione tra USA e URSS, gli occidentalisti iraniani iniziarono a guardare con più interesse un’allenza con la nuova potenza emergente nordamericana, segnando così il ridimensionamento dell’influenza europea nel paese mediorientale e in tutta l’area dell’Asia sud-occidentale. Al tempo dell’ultimo re iraniano, Mohammad Reza Pahlavi, senza ombra di dubbio la corrente occidentalista aveva avuto la meglio. Ciò non vuol dire che l’Iran non avesse relazioni con l’URSS, basterebbe pensare che l’industria dell’acciaio in Iran è stata concepita grazie a una stretta collaborazione con Mosca negli anni ’60-’70. Le principali acciaierie iraniane ancora oggi si trovano nella città di Isfahan, dove opera la più impotante acciaieria iraniana, la “Foolad-e Mobarake“, costruita ai tempi dai sovietici. Ma dal punto di vista strategico l’Iran era un paese saldamente nell’orbita occidentale, come dimostrano le varie alleanze militari di Tehran con Turchia e Pakistan, in funzione di contenimento dell’URSS. Non a caso a livello politico i due filoni che si opponevano al regime filo-USA dei Pahlavi erano quelli islamici e marxisti, entrambi con varie sfumature al proprio interno, ma con un ideale geopolitico chiaro: l’alternativa terzafazionista o eurasiatista in contrapposizione all’ideale occidentalista delle autorità.
Con la rivoluzione del 1979 e l’egemonia islamica in Iran, inziò un periodo in cui ufficialmente i governanti di Tehran esprimevano un approccio geopolitico formalmente terzafazionista, sintetizzato nello slogan “na sharqi, na qarbi, jomhurie eslami“, ovvero “né orienale, né occidentale, repubblica islamica“. Nei fatti però, soprattutto per via della chiusura dell’ambasciata USA a Tehran dopo la presa degli ostaggi nel novembre del 1979 (1), l’Iran ha avuto una relazione privilegiata con le potenze orientali, basterebbe dire che l’arsenale bellico dell’Iran derivava principalmente da paesi come Corea del Nord, Cina e URSS. Con la rivoluzione islamica però, non vi fu la completa eliminazione della componente occidentalista in seno alle istituzioni iraniane, ma una sua, per così dire, trasformazione e mimetizzazione. Queste correnti ogni tanto riescono a imporsi in modo più o meno celato. Ciò avvenne per esempio nella seconda metà degli anni ’90, col governo Khatami e oggi sembra riaffiorare un certo occidentalismo anche nel governo Rohani.
La netta cesura tra l’approccio evidentemente eurasiatista di Ahmadinejad e quello occidentalista del team di diplomatici che operano sotto il governo di Rohani, è riscontrabile da diverse azioni e esternazioni dei due leader che si sono dati il cambio al vertice dell’esecutivo di Tehran. Ahmadinejad ha basato la propria politica estera nello scacchiere asiatico sulla vicinanza con la Cina. Più di una volta l’ex leader iraniano ha detto che lo sviluppo della Cina è un bene per tutta l’umanità. Inoltre Ahmadinejad tra le sue prime azioni in politica estera ha promosso le relazioni bilaterali con Mosca, volendo aprire anche un apposito ufficio per l’Eurasia presso il ministero degli Esteri. Non a caso alcuni intellettuali hanno definito l’approccio di Ahmadinejad come “sguardo a oriente” (2). L’eurasiatismo di Ahmadinejad è poi stato avvalorato dal suo approccio molto duro e intransigente con le potenze occidentali, sia con gli USA che con gli inglesi.
Hassan Rohani, eletto nel giugno 2013 invece, si è subito distinto per una evidente voglia di cambiamento, in senso filo-occidentale. Questo evidentemente non vuol dire che l’Iran non è più un paese alleato di Russia e Cina, ma comunque vi è stato un cambiamento nella visione di politica estera dell’Iran. Basterebbe citare una recente intervista di Rohani nella quale egli criticando il precedente governo iraniano disse, in senso denigratorio: “Nei precedenti otto anni abbiamo lavorato solo per creare posti di lavoro in Cina e Corea“. Come per dire che l’impegno eurasiatico del governo Ahmadinejad ha creato benefici solo per i partner orientali, ma non per l’Iran.
Oggi la Repubblica Islamica, nonostante il cambiamento impresso da Rohani in politica estera, rimane un paese vicino alle potenze orientali. Il principale partner economico di Tehran rimane la Cina, e la tecnologia militare iraniana è e sarà ancora per molto legata agli sviluppi di modelli sovietici. L’Iran nei prossimi anni e finché sarà guidata da Hassan Rohani sarà una nazione integrata nel sistema eurasiatico, ma con una finestra aperta a ovest, soprattutto verso l’Europa. Con Hassan Rohani il filone occidentalista iraniano ha preso nuova linfa, ma questa intellighenzia dovrà confrontarsi seriamente col blocco eurasiatista, che potrebbe ripresentarsi alle prossime elezioni, confermando ancora questo ormai secolare scontro tra occidentalisti e eurasiatisti nella “Terra degli Ariani”.
1- Secondo alcuni intellettuali iraniani addirittura la presa degli ostaggi all’ambasciata USA di Tehran, sarebbe stato un progetto di elementi marxisti infiltrati nel movimento islamico, proprio per costringere le autorità iraniane ad avere un approccio più morbido con l’URSS. Questa tesi è stata riproposta da Sadeq Zibakalam, intellettuale riformista iraniano, con un chiaro approccio occidentalista, in chiave di denigrazione nei confronti della presa degli ostaggi. Addirittura recentemente Zibakalam, professore all’Università di Tehran, ha negato che gli USA abbiano sostenuto Saddam contro l’Iran, dicendo che l’antiamericansimo della Repubblica Islamica deriva non dall’essenza della rivoluzione, che sempre secondo Zibakalam, non aveva tratti anti-americani, ma da una successiva deviazione derivante dal contatto del movimento islamico con elementi marxisti-leninisti.
2- Questo concetto è stato coniato da Sepehr Hekmat, coautore insieme a chi scrive, del volume “Giustizia e spiritualità. Il pensiero politico di Mahmoud Ahmadinejad“, pubblicato nel 2013 da Anteo Edizioni con la collaborazione del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo.

martedì 17 dicembre 2013

La nuova politica estera iraniana che mette in imbarazzo l’Occidente


Ali Reza Jalali
Iranian Foreign Minister Zarif addresses the media during a news conference in AnkaraI dirigenti dell’Iran sono estremisti e vogliono fare la guerra al mondo.” Negli ultimi anni questo era il tormentone dei media occidentali e dei governi di USA e UE, che grazie alle esternazioni dell’ex presidente iraniano sull’olocausto e altre vicende, avevano l’opportunità di denigrare la Repubblica Islamica presentandola al mondo come una minaccia. Le elezioni presidenziali del giugno 2013 però hanno premiato Hassan Rohani, in Europa si direbbe un uomo di “centro”, che oggi dirige un esecutivo di larghe intese, con al proprio interno ministri sia conservatori che riformatori. Questo governo di coalizione è riuscito a creare un clima di serenità all’interno delle istituzioni iraniane, riuscendo nell’impresa di mettere d’accordo i vari centri di potere iraniani, dal parlamento alla Guida, fino al clero e a una certa intellighenzia riformista. La forza derivante da questa atmosfera di riconciliazione nazionale, dopo otto anni di esecutivo Ahmadinejad, che aveva creato molte tensioni tra le istituzioni di Tehran, per non parlare poi della ferita aperta del caos del 2009, dove una parte della dirigenza iraniana era entrata in aperto contrasto non solo col presidente, ma anche, cosa ben più grave, con la Guida, ovvero Ali Khamenei, ha portato quindi a liberare le forze represse della diplomazia iraniana. Il ministro degli Esteri Zarif quindi, forte di un ampio consenso in patria ha dimostrato la propria destrezza in vari incontri e soprattutto per ciò che concerne diversi accordi ratificati dal governo iraniano in pochi mesi, con diversi paesi.
La complessità delle dinamiche internazionali però si è riproposta recentemente nella vicenda che caratterizza la diatriba tra l’Iran e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per quello che riguarda il programma nucleare di Tehran. L’accordo di Ginevra firmato qualche settimana fa tra l’Iran e le potenze del CSNU più la Germania (cosiddetto 5+1), prevedeva la sospensione per sei mesi di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica, oltre altri piccoli incentivi, quantificabili in alcuni miliardi di dollari, in cambio, di fatto, di un importante ridimensionamento della potenzialità nucleare iraniana. Come spesso accade, gli accordi internazionali, una volta perfezionati dai diplomatici e dai politici, hanno bisogno del parere dei tecnici per poter essere messi in atto concretamente. A questo scopo gli esperti delle delegazioni dei paesi coinvolti nella vicenda (Iran, USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) da alcuni giorni sono impegnati in degli incontri fondamentali a Vienna. Nella giornata di giovedì 12 dicembre però è arrivata una notizia clamorosa. Nel bel mezzo degli incontri di Vienna, il governo nordamericano in maniera del tutto unilaterale ha approvato nuove sanzioni contro alcune aziende iraniane, accusate di avere un ruolo importante nelle ricerche condotte dagli iraniani nel settore atomico. Per via della clamorosa trasgressione nordamericana quindi, è giunta la notizia che la delegazione iraniana ha abbandonato gli incontri di Vienna. Anche una persona inesperta in materia di diritto internazionale comprende bene come la trasgressione USA sia in palese contraddizione con l’accordo di Ginevra. Per sei mesi non dovevano essere promosse nuove sanzioni, a meno che la parte iraniana non avesse adempiuto completamente alle varie clausole. In questo caso gli iraniani avevano dimostrato il massimo della disponibilità, recandosi a Vienna per gli incontri che dovevano attuare le decisioni prese in Svizzera. Insomma, la decisione nordamericana ha fatto cambiare radicalmente la situazione, dimostrando ancora una volta che nella vicenda, sono i dirigenti USA a non volere seriamente perseguire un accordo equo.
Detto ciò però, la parte iraniana cerca di non demoralizzarsi e continua a condurre un approccio equilibrato.  Per ciò che concerne gli sviluppi dell’accordo di Ginevra tra l’Iran e il 5+1 (attività nucleari di Tehran) infatti, la parte iraniana è molto più interessata della controparte occidentale (soprattutto USA) al conseguimento di un accordo definitivo. Gli USA hanno promosso nuove sanzioni, in palese violazione di quanto deciso in Svizzera qualche settimana fa. Mentre gli iraniani, dopo il ritiro dalle trattative “tecniche” di Vienna, sembrano interessati a portare avanti l’iniziativa diplomatica, a ogni costo. Infatti il ministro Zarif ha detto: “Noi siamo intenzionati a proseguire con la diplomazia in modo serio e deciso. Con la decisione degli americani l’accordo è deragliato, ma non è ancora morto.” Il governo iraniano guidato da Hassan Rohani sembra quindi puntare tutto sull’accordo e ciò smaschera in modo netto la poca attendibilità degli USA, che non rispettano i patti internazionali nemmeno quando hanno a che fare con un governo iraniano moderato.
Oggi gli USA non hanno più la scusa di doversi confrontare a Tehran con un governo estremista, e ciò tatticamente è grande vantaggio per gli iraniani; questi ultimi sembrano consapevoli di ciò e non vogliono perdere il treno della diplomazia. Le attività frenetiche di Zarif sembrano aver messo in imbarazzo gli occidentali che ora non hanno scuse per tirarsi indietro. Per non dire dell’imbarazzo di Tel Aviv, sempre più isolato nello scacchiere mediorientale.

sabato 14 dicembre 2013

L’accordo di Ginevra e l’ennesimo fallimento del diritto internazionale

di Ali Reza Jalali
“Scusa, posso chiederti una cosa? Ma questa vicenda non è la dimostrazione del fallimento del diritto internazionale?” – Questa domanda mi fu fatta qualche mese fa, alla fine di un incontro all’Università di Verona, da una giovane ricercatrice, dopo che avevo esposto una relazione, il cui testo è stato pubblicato su internet (1), concernente le contraddizioni giuridiche della vicenda riconducibile all’attacco militare della “coalizione dei volenterosi” prima e della NATO poi, contro la Libia del colonnello Gheddafi. In quell’occasione infatti, l’Italia, paese legato alla Libia da un “Trattato di amicizia”, aggrediva l’alleato africano, infischiandosene di alcuni articoli del trattato medesimo:
“1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.”
Allora la giustificazione proposta dal governo italiano fu la seguente: l’azione della comunità internazionale è supportata da una risoluzione del Consiglio di Sicuerezza dell’ONU, per cui non vi è alcun problema giuridico. In realtà la risoluzione dell’ONU, non prevedeva direttamente l’uso della forza, ma proponeva solo un generico impegno a usare tutti i mezzi possibili per il mantenimento e il rispetto della “No fly zone” su cieli libici. Il punto è che, secondo molti giuristi, essendoci anche un richiamo al celebre “Chapter 7″ della Carta dell’ONU, ovvero l’articolo che predispone la possibilità da parte della comunità internazionale dell’uso della forza per il mantenimento della pace nel mondo, di fatto è come se la risoluzione anti-libica prevedesse implicitamente la possibilità di un attacco militare contro la Jamahiria. Ciò basterebbe a capire la complessità delle vicende giuridiche, soprattutto in seno alle dinamiche internazionali. Questa complessità si è riproposta recentemente nella vicenda che caratterizza la diatriba tra l’Iran e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per quello che rigurda il programma nucleare di Tehran. L’accordo di Ginevra firmato qualche settimana fa tra l’Iran e le potenze del CSNU più la Germania (cosiddetto 5+1), prevedeva la sospensione per sei mesi di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica, oltre altri piccoli incentivi, quantificabili in pochi miliardi di dollari, in cambio, di fatto, di un importante ridimensionamento della potenzialità nucleare iraniana. Come spesso accade, gli accordi internazionali, una volta perfezionati dai diplomatici e dai politici, hanno bisogno del parere dei tecnici per poter essere messe in atto concretamente. A questo scopo gli esperti delle delegazioni dei paesi coinvolti nella vicenda (Iran, USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) da alcuni giorni sono impegnati in degli incontri fondamentali a Vienna. Nella giornata di giovedì 12 dicembre però è arrivata una notizia clamorosa. Nel bel mezzo degli incontri di Vienna, il governo nordamericano in maniera del tutto unilaterale ha approvato nuove sanzioni contro alcune aziende iraniane, accusate di avere un ruolo importante nelle ricerche condotte dagli iraniani nel settore atomico. Per via della clamorosa trasgressione nordamericana quindi, è giunta la notizia che la delegazione iraniana ha abbandonato gli incontri di Vienna. Anche una persona inesperta in materia di diritto internazionale comprende bene come la trasgressione USA sia in palese contraddizione con l’accordo di Ginevra. Per sei mesi non dovevano essere promosse nuove sanzioni, a meno che la parte iraniana non avesse adempiuto completamente alle varie clausole. In questo caso gli iraniani avevano dimostrato il massimo della disponibilità, recandosi a Vienna per gli incontri che dovevano attuare le decisioni prese in Svizzera. Insomma, la decisione nordamericana ha fatto cambiare radicalmente la situazione, dimostrando ancora una volta che nella vicenda, sono i dirigenti USA a non volere seriamente perseguire un accordo equo. Ancora una volta il diritto internazionale dimostra quindi di non essere un mezzo giusto, in quanto solo le decisioni dei “potenti” hanno effetti concreti, mentre le trasgressioni degli stessi, non hanno conseguenze pratiche. Dinnanzi a un inadempimento di Washington, quali mezzi concreti ha l’Iran per poter perseguire seriamente, e ripeto, seriamente, le proprie istanze? Nessuna! La risposta che diedi alla giovane ricercatrice veronese fu: “Il diritto non esiste. E’ solo un’astrazione, che può essere concretizzata dalla parte contrattualmente più forte”. Questa vicenda, come quella libica, dimostra per l’ennesima volta il fallimento del diritto internazionale. Il diritto internazionale sarà effettivo solo quando al Tribunale Penale Internazionale potranno essere imputati non solo i leader di paesi, a ragione o a torto, reputati dittatoriali o trasgressori dei diritti umani, ma quando anche i leader della cosiddette democrazie occidentali, saranno imputati ed eventualmente punti, per i loro crimini. Il diritto internazionale sarà effettivo solo quando oltre alle sanzioni contro gli “stati canaglia”, verranno applicate sanzioni anche contro i paesi cosiddetti democratici, per le loro trasgressioni degli accordi e dei trattati internazionali. Fino ad allora, continuerà a prevalere il diritto della forza e non la forza del diritto.

(1) http://www.statopotenza.eu/6947/la-vicenda-dei-maro-in-india-e-la-guerra-contro-la-libia-diritto-costituzionale-ordinamento-interno-e-diritto-internazionale

mercoledì 4 dicembre 2013

Questioni geostrategiche dell'Eurasia



di Ali Rastbeen (Accademia di Geopolitica di Parigi) 

Storicamente, ogni paese cerca di rafforzare il suo potere. Per fare questo, ci sono una varietà di mezzi: discussione, collaborazione, partecipazione, rivalità e scontri con altri paesi. Per oltre un secolo, la geopolitica è diventata un punto fondamentale nella letteratura militare, politica e nelle relazioni internazionali. Al di là delle amare conseguenze delle due guerre mondiali nella storia del mondo, la geopolitica sembra essere uno strumento adeguato per esaminare le equazioni di potere e per formulare analisi riguardo i cambiamenti nel mondo.

L'Eurasia è la più grande entità territoriale in tutto il mondo con una rilevanza geostrategica permanente. Alla fine della Guerra Fredda, in seguito alle politiche delle grandi potenze per garantire la sicurezza regionale e globale, l'importanza geopolitica della regione strategica dell'Eurasia è aumentata molto.

L'Eurasia comprende a grandi linee le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, i Balcani , i paesi dell'ex blocco socialista nell'Europa orientale, così come l'Iran, la Turchia, la Cina, l'India, il Pakistan e l'Afghanistan; alcuni però tendono a considerare l'Eurasia come la somma dell'Europa e dell'Asia.

Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Germania e il Giappone sono paesi in grado di spingere la loro influenza al di fuori dei loro confini geografici e possono svolgere un ruolo importante nella politica eurasiatica e cambiare la situazione geopolitica globale. In aggiunta al loro impatto economico, Germania e Giappone rischiano di svolgere un ruolo più importante nell'evoluzione degli eventi in Eurasia, ma la maggior parte dei loro vicini si opporrebbero alla supremazia di questi due attori. Russia e Cina sono le due principali potenze coinvolte in ambito eurasiatico. Grazie alla loro posizione storica e alle condizioni internazionali, nessun attore geopolitico straniero può da solo minare il ruolo fondamentale  di questi due stati.

Gli interessi degli Stati Uniti nella nuova Eurasia sono divisi in due categorie, a breve e a lungo termine. Nel breve periodo, gli Stati Uniti insistono sulla non proliferazione delle armi di distruzione di massa che avrebbero messo in pericolo la loro sicurezza e quella dei loro alleati.
A lungo termine, gli Stati Uniti tentano di bloccare l'influenza dei grandi rivali, così da mantenere la frammentazione geopolitica della regione eurasiatica. Essi temono che se una potenza assicura il suo controllo sulle riserve energetiche e umane eurasiatiche, l'equilibrio delle forze globali cambierebbe a discapito di Washington. Un tempo si temeva che la Germania, da sola o con l'aiuto del Giappone, potesse dominare l'Eurasia. Intervenendo durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno impedito il progetto. Durante la Guerra Fredda, l'obiettivo degli Stati Uniti è stato quello di evitare che l'Unione Sovietica esercitasse un'influenza dominante sull'Eurasia. Rebus sic stantibus, per gli Stati Uniti si possono immaginare le seguenti opzioni.

Una strategia si basa sulla disintegrazione territoriale della Russia e della Cina. Un altro fattore importante per mantenere l'egemonia, è rappresentato dalla possibilità di fomentare tensioni tra i vari attori eurasiatici, come avvenne ad esempio ai tempi della Guerra Fredda con le rivalità tra URSS e Cina. Un altro punto importante è il tentativo degli USA di incentivare l'integrazione dei paesi eurasiatici nell'economia globale, promuovendo così maggiore benessere all'interno di una particolare cerchia delle varie borghesie eurasiatiche, sperando così nell'abdicazione delle pretese geopolitiche da parte di alcuni paesi della regione. Anche se questa strategia ha avuto successo nel caso di alcuni paesi europei in seguito alla loro adesione all'Unione europea, è stato un fallimento per quanto riguarda la Russia e la Cina. 

Per i piani degli Stati Uniti, il ritorno della Russia sulla scena della rivalità geopolitica in Eurasia significherà un ritorno al periodo della Guerra Fredda. Inoltre la Russia riuscirà a consolidare la sua influenza sulle sue immediate vicinanze; in questo modo Mosca sfiderà direttamente gli interessi americani in Medio Oriente e in Europa.

La potenza che dominerà l'Eurasia si garantirà il controllo sull'economia globale. Circa il 75 % della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza mondiale si trova in questa regione. Circa il 60 % del reddito mondiale e quasi i tre quarti delle riserve conosciute di energia si trovano in Eurasia. Tutte le potenze nucleari, ad eccezione degli USA, si trovano in Eurasia.

Data l'importanza geopolitica dell'Asia Centrale, dell'Europa orientale e del Caucaso, gli strateghi USA credono che la chiave per il controllo dell'Eurasia sia il controllo di paesi come l'Iran, l'Ucraina e il Kazakistan; questi paesi dovrebbero essere usati come un ostacolo per quanto riguarda le attività di Russia e Cina nella regione.

Traduzione e sunto a cura di Ali Reza Jalali 

venerdì 29 novembre 2013

sabato 23 novembre 2013

Nucleare sì, ma solo per uso pacifico. Intervista ad Ali Reza Jalali

Nucleare sì, ma solo per uso pacifico. Intervista ad Ali Reza Jalali




Nucleare sì, ma solo per uso pacifico

Iran: in dieci anni di negoziati, mai così vicini all’intesa


Di seguito riportiamo l'intervista ad Ali Reza Jalali a cura di Romina Gobbo per "La Voce dei Berici", settimanale di Vicenza   


I negoziati a Ginevra sono in corso. Calmate le “scintille diplomatiche” tra il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, e il segretario di Stato americano, John Kerry, i colloqui sul nucleare procedono. Tuttavia, sia da parte americana che iraniana c’è la consapevolezza che per raggiungere l’intesa sarà necessario un lungo percorso. Ma dagli Usa i segnali positivi non mancano, purché il nucleare iraniano non venga utilizzato in campo militare. Sullo sfondo, resta la Francia, principale oppositore al colloquio dello scorso 7 novembre. “Perché servono maggiori garanzie che un “misero’ stop temporaneo all’arricchimento dell’uranio”, sostiene Parigi. “Per suoi meri interessi economici”, le fa eco Teheran.

La questione nucleare, il "rift" Israele-Iran, la crisi in Siria

«La vera questione - spiega l’iraniano Ali Reza Jalali, ricercatore e saggista, esperto di Medio Oriente - non è tanto il nucleare, ma l’egemonia dell’Iran nel grande Medio Oriente mondiale, dal Levante al Golfo, fino all’Asia centrale. L’impressione è che la minaccia della bomba atomica, più volte usata dall’ex presidente Ahmadinejad, servisse più sul piano psicologico, e che dietro non ci fosse una vera idea di distruzione. Mi fa pensare alla guerra fredda, con due schieramenti che si fronteggiano con sguardo minaccioso, ma senza reale intenzione di una guerra vera, sapendo entrambi che sarebbe la distruzione totale per tutti». «Nello scorso round negoziale il governo israeliano ha avuto un approccio molto intransigente e le pressioni per fermare l’accordo continuano; stesso atteggiamento anche da parte dell’Arabia Saudita. Il timore è che l’Occidente, avvicinandosi all’Iran, possa ridimensionare la sua relazione con altri partner dell’area, come appunto i due appena citati. Io credo che la preoccupazione israeliana sia eccessiva. Loro insistono sul problema della sicurezza, ma l’ingente presenza americana ai confini, è già di per sé una garanzia importante. Si tratta di istanze esagerate, ma sappiamo che per Netanyahu, l’Iran è sempre stato il grande nemico». «Da qualche decennio a questa parte, i due estremi nella contesa mediorientale sono Israele e Iran. ognuno ha i propri alleati e amici. Da un lato, un Iran nucleare potrebbe essere un problema per Israele, ma anche nella situazione attuale, con la Siria governata da Assad, con il Libano meridionale in mano a Hezbollah, il problema per Israele esiste. Il timore è che, con l’alleggerimento delle sanzioni, possa aumentare l’influenza dell’Iran in altri Paesi, in Iraq, per esempio. Tanto più che, siccome in Siria non è andata come si pensava, anche la Turchia ha cambiato approccio, si è fatta più moderata e ha cominciato a parlare di soluzione diplomatica, non più di guerra». «È un cambiamento di tattica perché quella di Ahmadinejad non ha portato granché, anzi, ha portato le sanzioni; mentre per quanto riguarda politiche generali di lungo periodo, non penso che ci saranno grandi cambiamenti strutturali. L’approccio del presidente su tematiche spinose, il riconoscimento dell’olocausto, gli auguri per il capodanno ebraico... denotano semplicemente un linguaggio più diplomatico, più improntato alla real politik. La situazione economica iraniana è complicata, con un’inflazione su dati annui che registra una crescita del 40 per cento. È urgente trovare un modo per alleggerire le sanzioni».


Sugli scontri confessionali in Medio Oriente 

«La conseguenza più nefasta ella cosiddetta primavera araba è stata l’emergere in modo più veemente delle istanze etnico-confessionali in Medio Oriente. Nella crisi siriana questo è ben chiaro, con due assi ben delineati che si contrappongono: uno sciita - Iran, Hezbollah, ma anche parte dell’Iraq - a sostegno del governo siriano; quello sunnita, legato a Turchia, Arabia Saudita, Fratelli Musulmani, e anche con infiltrazioni di al-Qaeda, che sostengono i ribelli. Questo scontro inter-confessionale ha avuto conseguenze molto nefaste e ha creato molto odio tra le due comunità. È una situazione che danneggia tutti. L’Iraq sta vivendo i momenti più drammatici dal ritiro degli americani (l’ultimo episodio terribile, in ordine di tempo, è la bomba esplosa a Beirut, nei pressi dell’ambasciata iraniana, martedì 19 novembre). Uno scontro che si è sentito anche in contesti fuori dal mondo arabo, altre regioni del mondo islamico, come il Pakistan». «Questo scontro storicamente c’è sempre stato, ma negli ultimi due, tre anni, è diventato molto pesante. Non si era mi vista una situazione così tesa tra le due comunità negli ultimi vent’anni. Gli scontri del passato avevano altre linee di demarcazione (nella crisi del 2006 in Libano, c’erano, da una parte, Hezbollah, ma dall’altra Isralele, così pure a Gaza, Hamas e Israele). La prima seria guerra degli ultimi anni fra sciiti e sunniti, forse è stata in Iraq all’indomani della caduta di Saddam, ma anche lì nulla a che fare con quanto sta accadendo in Siria, dove i ribelli hanno potuto reclutare manovalanza in tutto il mondo sunnita, e, dall’altra parte, a sostegno del regime di Assad, sono arrivate milizie internazionali sciite. Un conflitto regionale senza precedenti, ma per interposta persona, perché dietro gli attori ufficiali ci stanno le potenze regionali. Io penso che, se queste stesse potenze troveranno un accordo, le fiamme del conflitto inter-confessionale potranno ridimensionarsi».

Romina Gobbo, "La Voce dei Berici"

lunedì 18 novembre 2013

lunedì 4 novembre 2013

L’Iran grida ancora: “morte all’America!”



Ali Reza Jalali

Una folla oceanica si è oggi radunata davanti all’ex ambasciata americana a Teheran per commemorare il 34/o anniversario della presa della rappresentanza diplomatica statunitense. Lo slogan più urlato dalle masse è stato “morte all’America, morte a Israele”. Dominavano stamane nella capitale iraniana le bandiere con scritte inneggianti alla fine dell’egemonia imperialista nordamericana nel mondo. Infatti nel novembre del 1979, in una condizione sociale caotica come quella post-rivoluzionaria, i vari gruppi politici cercavano di trovare il proprio spazio, spesso usando anche la forza e ricorrendo al terrorismo, per eliminare i concorrenti. Inoltre, le mire egemoniche degli Stati Uniti, portavano l’allora governo di Carter ha tentare di rientrare in Iran dopo la caduta di un regime (quello dello Shah) da loro sostenuto fino all’ultimo istante. I gruppi rivoluzionari ovviamente, e lo stesso imam Khomeini, guida del processo rivoluzionario iraniano, erano consapevoli che l’America stava organizzando la reazione, basata principalmente su alcuni personaggi legati al fronte rivoluzionario stesso.
Non pochi furono i tentativi di destabilizzare dall’interno la neonata Repubblica islamica, proclamata tramite referendum nella primavera del 1979. Allora era in carica, per volere dell’imam Khomeini, il governo provvisorio di Bazargan, che non era un intransigente del movimento rivoluzionario, e addirittura non disdegnava che l’Iran post-rivoluzionario potesse rimanere in amicizia con gli americani, questione che emerse in un incontro, nemmeno tanto segreto, tra Bazargan e alcuni esponenti dell’amministrazione nordamericana in un viaggio all’estero dello stesso premier provvisorio. Vedendo la situazione, caratterizzata da un governo di transizione che rischiava di vanificare lo sforzo rivoluzionario per creare un Iran indipendente, i militanti islamici, principalmente quelli riconducibili al “Tahkime Vahdat”, di cui faceva parte anche il giovane Mahmoud Ahmadinejad, decisero di forzare la mano e di agire, prima che la Rivoluzione venisse tradita, essendo uno dei principi fondamentali della Repubblica islamica, l’indipendenza dalle cosiddette superpotenze. Una delle basi privilegiate che gli americani usavano per la destabilizzazione della Rivoluzione islamica era indubbiamente l’ambasciata statunitense a Tehran. Subito dopo il trionfo della Rivoluzione, i militanti chiusero unilateralmente la rappresentanza diplomatica di Tel Aviv, che era attiva in Iran da diversi anni, essendo lo Shah un alleato di Israele. Nell’autunno del 1979 quindi, i rivoluzionari decisero di dare un altro colpo alle mire straniere in Iran, sia per far capire al governo americano che non erano disposti ad abbandonare gli ideali rivoluzionari, sia per far comprendere alla compagine di Bazargan che la Rivoluzione islamica ha caratteristiche decisamente anticolonialiste, e un approccio superficiale porterebbe l’Iran al punto di partenza. Infatti i simpatizzanti del “Tahkime Vahdat”, assaltarono l’ambasciata americana, e presero in ostaggio gli addetti del personale; tra i giovani rivoluzionari iraniani, vi era anche, come abbiamo detto, Mahmoud Ahmadinejad. Quell’azione, che poi l’imam Khomeini, per sottolinearne l’importanza definì la “seconda Rivoluzione”, pose le basi per la rottura dei rapporti diplomatici tra USA e Iran e costrinse alle dimissioni il governo provvisorio di Bazargan, ormai incapace di tenere sotto controllo l’ala più antimperialista del movimento rivoluzionario.
La crisi degli ostaggi come sappiamo, portò gli americani ad intraprendere una goffa reazione culminata nell’umiliante vicenda del fallimento delle operazioni militari che dovevano liberare gli ostaggi e l’ambasciata americana a Tehran, che i rivoluzionari ribattezzarono come il “covo delle spie”. In una tempesta di sabbia nel deserto dell’Iran centrale infatti, gli elicotteri americani rimasero intrappolati e senza che le autorità iraniane muovessero un dito, la missione fallì. I rivoluzionari islamici videro in ciò un miracolo divino, dimostrazione, dal loro punto di vista, della giustezza delle loro istanze antiamericane. Oggi come allora la nazione iraniana, nonostante le difficoltà, e nonostante la voglia di “americanizzazione” di una parte della borghesia e della classe politica di Teheran, non accetta la dominazione coloniale, e auspica non solo la liberazione del Medio Oriente, ma quella del mondo, dall’ingiustizia perpetrata dal capitalismo selvaggio internazionale, guidato dal governo gurrafondaio di Washington.

Tratto dal sito di "Stato e Potenza" 

domenica 3 novembre 2013

Alireza Jalali all’IRIB: relazioni Iran-Usa, cambia il linguaggio e la tattica ma non le politiche


Alireza Jalali all’IRIB: relazioni Iran-Usa, cambia il linguaggio e la tattica ma non le politiche di base (AUDIO)


IRIB ITALIA 
Alireza Jalali all’IRIB: relazioni Iran-Usa, cambia il linguaggio e la tattica ma non le politiche di base (AUDIO)
TEHERAN - Il 4 novembre, in Iran si celebra la presa dell'ex ambasciata Usa a Teheran, denominata 'il covo delle spie', nel 1979, all'indomani della vittoria della rivoluzione islamica e la caduta del regime monarchico.
Alireza Jalili, redattore del periodico 'Stato e Potenza' e analista del Medio Oriente, rispondendo alla domanda: “Morte all’America rimane sempre lo slogan principale del popolo iraniano oppure con la elezione del presidente Rohani questo sara’ modificato, ha detto: Penso che un cambiamento nelle relazioni Iran- Usa ci sara’, ma sara’ un cambiamento nel linguaggio e al Massimo nella tattica, mentre le linee principali della diplomazia restano quelle annunciate dalla guida suprema Ayatollah Khamenei….

http://italian.irib.ir/analisi/interviste/item/134012

sabato 2 novembre 2013

La dichiarazione di Balfour, wahabismo, "balcanizzazione" del mondo islamico



di Ali Reza Jalali 


File:Balfour declaration unmarked.jpg


Le potenze occidentali hanno sempre guardato con attenzione ai propri confini orientali e meridionali, per via dell’interesse strategico finalizzato al controllo dei traffici commerciali tra Europa e Asia. Indubbiamente, la collocazione dei Paesi islamici, prevalentemente inseriti tra l’Occidente e l’Estremo Oriente, ha fatto attrarre l’attenzione dei colonialisti su quei territori, compresi a grandi linee tra il Bosforo e il Subcontinente indiano. Il controllo di questa macroarea, voleva dire per gli europei, controllare i traffici commerciali tra l’Occidente e l’Oriente. In questo senso vanno interpretate le varie avventure coloniali di inglesi e francesi nella regione del Vicino Oriente e l’espansionismo verso il Mediterraneo orientale, il Canale di Suez, il Mar Rosso, il Golfo Persico e l’Oceano Indiano, quanto meno nella sua parte settentrionale. Ad esempio l’avventura napoleonica in Egitto alla fine del Settecento, era finalizzata all’egemonia sulla zona strategica a ridosso del Mar Rosso, nel tentativo di disturbare l’azione degli inglesi in quella regione. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento però, la regione del Vicino Oriente fu scossa dalla scoperta del petrolio, che da allora fino ad oggi, e probabilmente anche lungo il XXI secolo, è stato, è e sarà il motore dell’economia mondiale (senza dimenticare il ruolo fondamentale che sta assumendo sempre di più il gas naturale, un’altra strategica risorsa dei Paesi della regione). Da allora le potenze coloniali, in primis Francia e Gran Bretagna, hanno cercato l’egemonia nel mondo musulmano, puntando e investendo molto nel vecchio principio del colonialismo, basato sull’incentivazione delle guerre fratricide islamiche, finalizzate all’indebolimento reciproco dei Paesi della regione. Evidentemente è più facile dominare e influenzare un Paese debole che uno forte, e un Paese sempre coinvolto in guerre è molto più vulnerabile di uno che vive nella stabilità e nella pace. Il primo passo per la deflagrazione della regione, finalizzato al controllo dei Paesi del mondo islamico, per facilitare l’approvvigionamento energetico a basso costo della Francia e della Gran Bretagna, fu il celebre accordo segreto Sykes-Pikot del 1916, dal nome dei ministri inglese e francese, che stipularono il patto. Grazie ad esso, i territori dell’impero ottomano, all’indomani della fine della Grande Guerra, furono divisi e un grande Stato si trasformò in una quantità di Paesi molto più piccoli e più deboli. Bisogna notare che questo progetto, che diede vita alla Turchia, alla Siria, al Libano, all’Iraq e ad altri Paesi, fu possibile grazie ad un piano diabolico di guerra fratricida tra popolazioni musulmane, in nome di diverse confessioni e soprattutto sfruttando la rivalità tra turchi e arabi. A questi ultimi era stato promesso un grande Stato panarabo, che evidentemente non nacque mai. Infatti, una volta sconfitti gli ottomani, gli inglesi e i francesi, divisero i territori arabi dell’ormai ex impero in diversi Stati, con confini arbitrari, con il proposito di creare ulteriori dissidi tra i popoli della regione. Per cui fu creato ad esempio un Iraq ingestibile, basato sulla forzata convivenza tra arabi, curdi, turcomanni ecc. con diverse religioni e confessioni (musulmani sciiti, musulmani sunniti, cristiani caldei, cristiani assiri ecc.), per porre le basi di nuovi attriti e nuovi scontri. 



Insomma, da allora in avanti il Vicino Oriente sarebbe stato il teatro di guerre civili fomentate da potenze straniere interessate al dominio di una delle più ricche regioni al mondo, il controllo della quale poteva significare (e lo stesso vale ancora oggi) il dominio delle dinamiche globali e dell’economia di diversi Paesi. Un altro punto fondamentale del dominio coloniale occidentale nel mondo islamico è l’aiuto notevole che gli inglesi hanno dato alla corrente “wahabita” nella Penisola araba, in funzione anti-ottomana. Il wahabismo è un movimento massimalista nato in Arabia nel XVIII secolo, che secondo i dettami del fondatore di questa ideologia estremista, Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab, morto nel 1792, sarebbe incentrato in una sorta di ritorno alla purezza primordiale della comunità islamica, contro alcune forme “eretiche”, almeno secondo i fautori di questa scuola di pensiero, come il culto dei luoghi santi, usanza diffusa in molte zone del mondo islamico, tra gli sciiti, ma anche tra i sunniti (soprattutto nel sufismo) (16). Tra le malefatte di questo gruppo massimalista possiamo citare, a conferma della indole anti-islamica di tale setta, la devastazione della tomba del profeta Muhammad nel 1805. Più volte gli ottomani cercarono di reprimere la furia reazionari wahabita: ad esempio tra il 1811 e il 1818 vi furono diverse spedizioni per sconfiggere i wahabiti nella Penisola araba, ma i rimedi non furono efficaci. Alla fine questo movimento reazionario e settario, col supporto inglese, riuscì a creare uno Stato autonomo nell’Arabia centrale. Il culmine del potere wahabita arrivò nei primi anni del Novecento quando essi conquistarono La Meccca, e crearono un Emirato che andava dall’Arabia centrale al Mar Rosso. La dinastia Al Saud quindi, riuscì insieme ai colonialisti inglesi a emancipare la Penisola araba dal dominio ottomano e a creare negli anni ’20 l’Arabia Saudita. La diffusione del pensiero rigorista wahabita e l’aiuto che il colonialismo occidentale ha fornito a questa setta per distruggere l’integrità territoriale dell’impero ottomano è da collegarsi al più problematico degli avvenimenti del mondo islamico nel XX secolo, ovvero alla creazione del cosiddetto “Stato di Israele”. Non a caso il progetto Sykes-Picot, per la spartizione e la deflagrazione dei territori arabi in mano agli ottomani, è del 1916 e la famosa Dichiarazione di Balfour, riguardante la futura nascita di un “focolare nazionale” (“National Home”) per gli ebrei in Palestina è del 1917. In pratica, senza la disgregazione dell’impero ottomano, fomentato e pianificato dagli occidentali ed eseguito sul campo da alcuni gruppi estremisti, come appunto la setta wahabita, nemica dei sunniti ottomani come degli sciiti, che attraverso una massiccia mobilitazione nel mondo arabo, prevalentemente nello “Hijaz” (regione della Penisola araba, a ridosso del Mar Rosso), portarono a compimento i piani del colonialismo. 



Il risultato fu che grazie a questi sforzi, non solo gli arabi non ottennero un grande Stato panarabo, non solo furono divisi in alcuni piccoli e deboli Stati, ma gli stessi arabi palestinesi furono cacciati dalla loro terra, e rimpiazzati dagli ebrei emigrati da diverse zone del mondo. Il frutto della collaborazione tra le potenze “democratiche” e le forze reazionarie del mondo musulmano, portò alla creazione del regime sionista, che da allora fino ai giorni nostri, rappresenta la principale minaccia alla stabilità della regione e dei popoli di fede musulmana. Riguardo alla diretta contingenza tra il progetto colonialista di spartizione dell’impero ottomano e la creazione del regime sionista, Angelo Arioli scrive:
“Alla vigilia della I guerra mondiale, l’impero ottomano che abbraccia buona parte del mondo arabo e del quale la Palestina è provincia amministrativa, versa in profondissima crisi dopo secoli di splendore e potenza economica, e ai suoi ampi possedimenti si volgono le mire degli Stati nazionali europei, interessati ad assicurarsi il controllo di aree strategiche ed economicamente rilevanti. All’interno dell’impero poi, una parte degli arabi aspira ad emanciparsi dagli ottomani, per creare uno Stato arabo unito. Ma questo sogno degli arabi, apparentemente sostenuto dagli inglesi, è di breve durata: mentre promettono sostegno agli arabi per la creazione di un loro Stato in cambio di aiuto contro gli ottomani, gli inglesi trattano segretamente coi francesi e si spartiscono le province arabe dell’impero. La spartizione avverrà puntualmente all’indomani della guerra, con la sconfitta e lo smembramento dei territori ottomani, regolata dalla Conferenza di S. Remo (25.4.1920). In questo quadro generale alla Palestina tocca una sorte particolare, in quanto la sua storia e quella dei suoi abitanti si intreccia con un movimento nato in Europa, il sionismo, mirante alla creazione per gli ebrei di uno Stato in Palestina. Uno dei primi episodi che indica una convergenza diretta tra il sionismo e i progetti coloniali occidentali lo si ha nel 1917, in pieno conflitto mondiale, quando l’Inghilterra, in cambio di pressioni che l’influente comunità ebraica americana avrebbe dovuto effettuare sul governo degli Stati Uniti per convincerlo a entrare in guerra, dichiarava tramite il suo ministro degli Esteri Lord Balfour di vedere con favore la creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. 


La domanda che dovremmo porci è la seguente: sarebbe stata possibile la creazione del regime sionista sui territori arabi, senza il supporto di alcuni gruppi settari e massimalisti, anti-islamici e reazionari, ai progetti del colonialismo occidentale? Ovviamente no. Solo grazie alla guerra fratricida tra arabi e turchi, tra musulmani di diverse confessioni, alimentata da alcuni estremisti, e studiata a tavolino da potenze straniere, è stata possibile la deflagrazione del mondo islamico e l’istallazione dell’avanguardia occidentale nel cuore del Vicino Oriente. La logica del “divide et impera” non fallisce (quasi) mai.

mercoledì 30 ottobre 2013

NONOSTANTE LE POLEMICHE, CONFERMATO L'INCONTRO DI TERNI SULLA SIRIA




RICORDIAMO A TUTTI CHE, NONOSTANTE LE POLEMICHE, L'INCONTRO SULLA SIRIA E IL MEDIO ORIENTE IN PROGRAMMA A TERNI PER IL 16 NOVEMBRE E' CONFERMATO. NON MANCATE. 

http://www.statopotenza.eu/9163/comunicato-in-merito-alla-conferenza-di-terni-sulla-siria

http://www.contropiano.org/politica/item/20002-rossobrunismo-il-pdci-di-terni-abbocca

domenica 6 ottobre 2013

L’EVENTUALE DISGELO NELLE RELAZIONI TRA WASHINGTON E TEHERAN


http://www.eurasia-rivista.org/leventuale-disgelo-nelle-relazioni-tra-washington-e-teheran/20188/

:::: Seyyed Hadi Zarghani :::: 
L’EVENTUALE DISGELO NELLE RELAZIONI TRA WASHINGTON E TEHERAN
Dopo il viaggio a New York del presidente iraniano Rohani e le inaspettate aperture diplomatiche all’Occidente e soprattutto agli USA, l’attenzione mediatica e degli esperti si è concentrata sulle relazioni tra Iran e Stati Uniti. Come “ciliegina sulla torta” del disgelo apparente tra Teheran e Washington poi, abbiamo potuto apprezzare la telefonata storica tra i due leader, Obama e Rohani, primo contatto diretto tra personalità politiche di spicco delle due nazioni da più di trent’anni a questa parte. Nel recente passato c’erano stati dei contatti per quello che riguarda vicende come quella irachena e afghana, ma mai si erano riscontrati contatti diretti ad alto livello, come quello tra i due presidenti o tra i Ministri degli Esteri, Kerry e Zarif. L’importanza di questi contatti è analizzabile da diverse prospettive, in primo luogo per via del fatto che i due paesi in questione non hanno più relazioni diplomatiche dal 1979, cioè da quando a Teheran un gruppo di rivoluzionari fece irruzione nell’ambasciata a stelle e strisce sequestrando il personale all’interno dell’edificio. Da allora i due paesi hanno vissuto in una situazione di costante guerra fredda.
Ma un eventuale miglioramento dei rapporti bilaterali non ha un impatto solo sulla forza e la tenuta di questi due attori della politica internazionale, ma anche su quella di altri attori, sia in Medio Oriente che a livello globale. Come sappiamo il cuore della geopolitica è rappresentato dallo scontro tra le varie potenze, e la concorrenza avviene su diversi livelli: economia, politica, cultura, strategia militare ecc. I vari attori geopolitici sono in continua lotta tra di loro, per il primato e per la supremazia. Il miglioramento dei rapporti tra USA e Iran ha un effetto diretto sulle altre potenze del Medio Oriente e dell’Asia occidentale. Non a caso alcuni paesi della regione hanno accolto con freddezza le notizie provenienti da Washington, in quanto un disgelo tra USA e Repubblica Islamica porterebbe ad un indebolimento delle istanze anti-iraniane di alcuni attori regionali. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Kuwait e Azerbaigian, sicuramente non vedono di buon occhio un riavvicinamento tra Teheran e Washington. Tutto ciò in base al fatto che questi governi hanno impostato la loro politica regionale su un principio unico, l’opposizione all’Iran, e proprio per questo negli ultimi anni hanno ricevuto molto appoggio da Washington. Ora che Obama sembra voler intrattenere migliori relazioni con Teheran, la paura dei vari attori regionali filoamericani è di essere se non abbandonati, quanto meno “discriminati” dalle nuove scelte della Casa Bianca.
A un livello più basso, esistono serie preoccupazioni per un miglioramento delle relazioni USA-Iran in paesi come Pakistan, Turchia, Egitto e Turkmenistan. Ma il paese in generale più preoccupato per un miglioramento dei rapporti tra l’Iran e gli USA, almeno a livello mediorientale, è sicuramente Israele. A livello globale possiamo dire che certamente nazioni come Russia e Cina hanno beneficiato molto dai pessimi rapporti tra Iran e USA, basterebbe pensare al fatto che le potenze orientali sono i principali fornitori, anche a prezzi non di certo agevolati, di capacità militare e altro alla Repubblica Islamica. Se l’Iran dovesse riallacciare i legami con gli USA e con l’Occidente, Cina e Russia si troverebbero dinnanzi a una concorrenza per ciò che concerne la conquista del mercato iraniano, mentre ora possono agire come monopolisti. Non bisogna inoltre dimenticare il fatto che all’interno di Iran e USA vi sono comunque delle forti opposizioni al miglioramento dei rapporti bilaterali. In Iran il tutto è principalmente riconducibile a certi ambienti religiosi e non, fortemente ideologizzati e antiamericani. La loro opposizione al miglioramento delle relazioni Iran-USA deriva da questioni ideologiche. In altri casi invece vi sono dei monopolisti in ambito economico che campano e prosperano grazie alle sanzioni internazionali; per loro la fine delle sanzioni significherebbe anche la fine del lucro. Lo stesso si può dire per gli USA, dove gli ultraconservatori e i filoisraeliani sono molto contrari al ripristino delle relazioni bilaterali, con il timore che ciò possa isolare Tel Aviv in Medio Oriente. In generale possiamo notare come la vicenda sia molto complessa, e abbia diversi risvolti da analizzare, sia a livello interno di Iran e USA, sia in Medio Oriente, sia per le conseguenze per l’intero scacchiere globale; Russia e Cina rischiano di perdere la “carta iraniana” nelle loro trattative con l’Occidente.


* Seyyed Hadi Zarghani è docente di geopolitica presso l’università “Ferdowsi” di Mashad (Iran)

 
Traduzione a cura di Ali Reza Jalali

martedì 1 ottobre 2013

USA-Iran: diplomazie al lavoro




Dopo il viaggio a New York del presidente iraniano Rohani e le inaspettate aperture diplomatiche all'Occidente e soprattutto agli USA, l'attenzione mediatica e degli esperti si è concentrata sulle relazioni tra Iran e Stati Uniti. Come "ciliegina sulla torta" del disgelo apparente tra Teheran e Washington poi, abbiamo potuto apprezzare la telefonata storica tra i due leader, Obama e Rohani, primo contatto diretto tra personalità politiche di spicco delle due nazioni da più di trent'anni a questa parte. 


Ad esempio è stata accennata l'ipotesi di un collegamento aereo diretto tra Iran e Usa è solo l'ultimo di una serie di segnali di distensione tra i due Paesi e segue la storica telefonata tra Rohani e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama la scorsa settimana, il primo contatto di così alto livello all'avvio della Rivoluzione islamica 35 anni fa.


Torkan ha quindi spiegato che la proposta di Rohani in merito ai collegamenti aerei ha come obiettivo quello di ''risolvere i problemi che incontrano gli espatriatri iraniani'' quando vogliono tornare in Patria. Los Angeles ospita una grande comunita' di iraniani-americani. Prima della rottura dei rapporti diplomatici tra i due Paesi nel 1979, era la Iran Air a collegare New York a Teheran.



Nel recente passato c'erano stati dei contatti per quello che riguarda vicende come quella irachena e afghana, ma mai si erano riscontrati contatti diretti ad alto livello, come quello tra i due presidenti o tra i Ministri degli Esteri, Kerry e Zarif. L'importanza di questi contatti è analizzabile da diverse prospettive, in primo luogo per via del fatto che i due paesi in questione non hanno più relazioni diplomatiche dal 1979, cioè da quando a Teheran un gruppo di rivoluzionari fece irruzione nell'ambasciata a stelle e strisce sequestrando il personale all'interno dell'edificio. Da allora i due paesi hanno vissuto in una situazione di costante guerra fredda. Ma un eventuale miglioramento dei rapporti bilaterali non ha un impatto solo sulla forza e la tenuta di questi due attori della politica internazionale, ma anche su quella di altri attori, sia in Medio Oriente che a livello globale. Come sappiamo il cuore della geopolitica è rappresentato dallo scontro tra le varie potenze, e la concorrenza avviene su diversi livelli: economia, politica, cultura, strategia militare ecc. I vari attori geopolitici sono in continua lotta tra di loro, per il primato e per la supremazia. Il miglioramento dei rapporti tra USA e Iran ha un effetto diretto sulle altre potenze del Medio Oriente e dell'Asia occidentale. 




Non a caso alcuni paesi della regione hanno accolto con freddezza le notizie provenienti da Washington, in quanto un disgelo tra USA e Repubblica Islamica porterebbe ad un indebolimento delle istanze anti-iraniane di alcuni attori regionali. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Kuwait e Azerbaigian, sicuramente non vedono di buon occhio un riavvicinamento tra Teheran e Washington. Tutto ciò in base al fatto che questi governi hanno impostato la loro politica regionale su un principio unico, l'opposizione all'Iran, e proprio per questo negli ultimi anni hanno ricevuto molto appoggio da Washington. Ora che Obama sembra voler intrattenere migliori relazioni con Teheran, la paura dei vari attori regionali filoamericani è di essere se non abbandonati, quanto meno "discriminati" dalle nuove scelte della Casa Bianca. A un livello più basso, esistono serie preoccupazioni per un miglioramento delle relazioni USA-Iran in paesi come Pakistan, Turchia, Egitto e Turkmenistan. Ma il paese in generale più preoccupato per un miglioramento dei rapporti tra l'Iran e gli USA, almeno a livello mediorientale, è sicuramente Israele. A livello globale possiamo dire che certamente nazioni come Russia e Cina hanno beneficiato molto dai pessimi rapporti tra Iran e USA, basterebbe pensare al fatto che le potenze orientali sono i principali fornitori, anche a prezzi non di certo agevolati, di capacità militare e altro alla Repubblica Islamica. Se l'Iran dovesse riallacciare i legami con gli USA e con l'Occidente, Cina e Russia si troverebbero dinnanzi a una concorrenza per ciò che concerne la conquista del mercato iraniano, mentre ora possono agire come monopolisti. Non bisogna inoltre dimenticare il fatto che all'interno di Iran e USA vi sono comunque delle forti opposizioni al miglioramento dei rapporti bilaterali. In Iran il tutto è principalmente riconducibile a certi ambienti religiosi e non, fortemente ideologizzati e antiamericani. 



La loro opposizione al miglioramento delle relazioni Iran-USA deriva da questioni ideologiche. In altri casi invece vi sono dei monopolisti in ambito economico che campano e prosperano grazie alle sanzioni internazionali; per loro la fine delle sanzioni significherebbe anche la fine del lucro. Lo stesso si può dire per gli USA, dove gli ultraconservatori e i filoisraeliani sono molto contrari al ripristino delle relazioni bilaterali, con il timore che ciò possa isolare Tel Aviv in Medio Oriente. In generale possiamo notare come la vicenda sia molto complessa, e abbia diversi risvolti da analizzare, sia a livello interno di Iran e USA, sia in Medio Oriente, sia per le conseguenze per l'intero scacchiere globale; Russia e Cina rischiano di perdere la "carta iraniana" nelle loro trattative con l'Occidente.

venerdì 30 agosto 2013

Se Obama diventa Bush

Se Obama diventa Bush

Alireza Rezakhah Khorasannews
Obama-Bush_Nort_t607Nelle ultime settimane l’attenzione dei media internazionali si era concentrata sull’Egitto, sul colpo di stato e sull’alto numero dei morti nelle piazze del Cairo; la crisi era talmente pesante che molti governi hanno deciso di alzare la voce per condannare le violenze. L’Arabia Saudita allora decideva di sostenere i militari e gli Stati Uniti prendevano una posizione ambigua, sottolineando l’importanza del rapido ristabilimento del “processo democratico”. Negli stessi giorni della crisi egiziana, in Libano un attentato in un quartiere di Beirut, ovvero una bomba, causava decine di morti, mentre dopo due gironi dall’attentato la diplomazia saudita si metteva in moto e avvertiva l’UE di non mettersi contro i militari egiziani. Eloquente al riguardo la visita improvvisa del minitro degli esteri di Riad a Parigi. Infatti, mentre l’Europa sembrava intenzionata a punire i militari egiziani per il golpe contro i Fratelli Musulmani, i sauditi ribadivano il fatto che non avrebbero lasciato l’Egitto nella crisi economica, grazie ad un “aiuto” finanziario al governo provvisorio, che rischava di non ricevere più i finanziamenti europei. Qualche giorno dopo arrivava “puntuale” l’attentato a Tripoli, questa volta contro la comunità sunnita libanese (mentre l’attacco di Beirut era contro gli sciiti, anche se tra i morti a dire il vero c’erano pure dei sunniti). Dopo pochi giorni infine, i media hanno dato la notizia di un attacco con armi chimiche alla periferia di Damasco. Questa però non era la prima volta negli ultimi mesi che i ribelli siriani pretendevano che i governativi avessero usato le armi di distruzione di massa. Infatti qualche tempo fa gli oppositori di Assad avevano avuto la stessa pretesa e il presidente americano Obama aveva parlato della famosa “linea rossa”, ovvero che l’uso delle armi chimiche sarebbe stato il motivo che poteva giustificare un intervento straniero in Siria, a salvaguardia della popolazione civile.
Nelle occasioni precedenti però Carla Del Ponte, membro del comitato ONU per la tutela dei diritti umani in Siria, aveva affermato con certezza che le armi chimiche in Siria erano state utilizzate dai ribelli e non dal regime; notizia questa non molto propagandata dai media internazionali. Nella vicenda riguardante gli ultimi giorni però, questione che ha fatto immediatamente dimenticare a tutti la crisi egiziana, l’Occidente si è detto pronto a intervenire militarmente anche fuori dalla decisione dell’ONU: ciò è molto importante perché è la prima volta che USA, Francia e Gran Bretagna prendono una posizione del genere dall’inizio della crisi siriana nel 2011. Sei anni fa i media nordamericani avevano diffuso delle notizie riguardanti la stretta collaborazione tra i sauditi e il governo Bush per indebolire l’asse Iran-Siria-Hezbollah. Allora si disse che il governo americano avesse deciso di cambiare alcuni approcci nei confronti di certe organizzazioni islamiste, vicine alla rete di Al Qaida, soprattutto in Libano, per iniziare un progetto riconducibile al confronto con Hezbollah sul territorio libanese. I sauditi quindi avevano il compito in quella situazione di finanziare i gruppi radicali in Libano, mentre gli americani si dovevano occupare di far pressione al governo siriano per convincerlo a non sostenere più Hezbollah e a trattare con gli israeliani.
Oggi, a distanza di sei anni, con una nuova amministrazione USA, guidata da Obama, siamo dinnanzi allo stesso progetto. Un decennio fa gli USA guidarono una coalizione contro l’Iraq; allora come oggi, il pretesto dell’attacco fu la presenza delle armi di distruzione di massa. Oggi la vittima designata sembra la Siria, sempre con la scusa delle armi chimiche. I mediorientali si ricordano bene di come andò la guerra contro l’Iraq e di come le pretese occidentali si rivelarono infondate, però l’amministrazione americana sembra voler ripercorrere la stessa drammatica strada. Addirittura oggi, è lo stesso Colin Powell, uno dei principali artefici dell’attacco contro l’Iraq, a mettere in guardia Obama; recentemente l’ex segretario di Stato ha detto: “Pensare che possiamo cambiare tutto in poco tempo, solo perché siamo l’America, è una cosa sbaglata”. Obama ci dovrà riflettere bene.
Traduzione di Ali Reza Jalali

lunedì 26 agosto 2013

L’ARCHIVIO DI “EURASIA”

Nell'archivio della rivista di geopolitica "Eurasia", è segnalato l'articolo di Ali Reza Jalali, Che cosa vuol dire Repubblica Islamica?, 2/2012, pp. 117-123

:::: Redazione :::: 18 agosto, 2013 :::: Email This Post   Print This Post
L’ARCHIVIO DI “EURASIA”
Dottrina geopolitica
Abd ar-Rahman Ibn Khaldun, Il deserto e la città, 1/2005, pp. 35-44
Lev Gumilev, Etnogenesi ed etnosfera, 2/2005, pp. 47-54
Alain de Benoist, Geopolitica, 1/2007, pp. 235-236
Pier Paolo Portinaro, Metamorfosi geopolitiche. Stati, federazioni, imperi, 4/2007, pp. 145-156
Claudio Mutti, Il geografo dell’Impero, 2/2008, pp. 17-20
Strabone, Utilità della geografia, 2/2008, pp. 11-12
Nebojsa Vukovic, Geostrategia americana ed Eurasia nella dottrina di Nicholas Spykman, 1/2009, pp. 135-139
Matteo Marconi, Vita activa: gli esempi di Karl e Albrecht Haushofer, 1/2010, pp. 229-236
Sebastián Antonino Cutrona, L’immutabilità della geopolitica classica, 1/2011, pp. 171-189
Vasile Simileanu, Il dialogo geopolitico, 1/2011, pp. 205-212
Marco Tullio Cicerone, L’ideale posizione geografica di Roma, 1/2013, pp. 13-16
Aristotele, Popolazione e territorio della polis ideale, 2/2013, pp. 13-18
Lev Gumilev, Ethnos ed etnonimi, 3/2012, pp. 13-17

Il continente eurasiatico
A. Dugin, L’idea eurasiatista, 1/2004, pp. 7-23
N. S. Trubeckoj, Il nazionalismo paneurasiatico, 1/2004, pp. 25-37
A. Dugin, La visione eurasiatista, 1/2005, pp. 7-24
C. Carpentier de Gourdon, L’imperativo dell’Eurasia, 2/2005, pp. 7-16
M. A. Schwarz, Da Gengis Khan all’ideocrazia. La visione eurasiatica di Nikolaj S. Trubeckoj, 2/2006, pp. 83-90
C. Mutti, Mircea Eliade e l’unità dell’Eurasia, 2/2007, pp. 23-30
C. Mutti, Henri Corbin: l’Eurasia come concetto spirituale, 2/2010, pp. 25-30
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Iran
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Spartaco Alfredo Puttini, La rivoluzione islamica dell’Iran, 1/2010, pp. 249-262
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Siria
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Palestina
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Nizar Sakhnini, Sviluppi demografici in Palestina, 4/2006, pp. 131-138
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Angelo d’Orsi, Vincitori e vinti, 2/2009, pp. 111-118
Mohamed Larbi Bouguerra, L’appropriazione israeliana della risorsa idrica, 2/2009, pp. 119-134
Vagif A. Gusejnov, Palestina: nuove possibilità per la Russia, 2/2009, pp. 135-139
Pierre-Yves Salingue, Palestina, 60 anni dopo: la divisione o la pace, 2/2009, pp. 179-192
Salman Abu Sitta, Il ritorno dei profughi è inevitabile, 2/2009, pp. 213-223
Michele Gaietta, Geopolitica dell’acqua in Palestina, 4/2012, pp. 211-229

Egitto
Spartaco Alfredo Puttini, L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana, 3/2005, pp. 115-124
Ercolana Turriani, Il sogno panarabo. La Repubblica Araba Islamica, 2/2007, pp. 211-220; 3/2007, pp. 241-246
Claudio Moffa, Il “caso Mattei” e il conflitto arabo-israeliano (1961-1962), 4/2007, pp. 255-269
Aladár Dobrovits, Terra ed essenza egiziana, 3/2009, pp. 31-36
Claudio Mutti, 1956: aggressione contro l’Egitto, 3/2009, pp. 147-157
Maged Rida Butros, Le relazioni tra Egitto e Stati Uniti: il loro contenuto e il loro futuro, 1/2011, pp. 41-58
Lorenzo Salimbeni, La primavera egiziana del 1919, 2/2012, pp. 185-193
Stefano Fabei, L’indipendenza dell’Egitto nei piani dell’Asse, 2/2012, pp. 249-256
Emanuela Locci, La Massoneria in Egitto, 4/2012, pp. 163-171