sabato 14 dicembre 2013

L’accordo di Ginevra e l’ennesimo fallimento del diritto internazionale

di Ali Reza Jalali
“Scusa, posso chiederti una cosa? Ma questa vicenda non è la dimostrazione del fallimento del diritto internazionale?” – Questa domanda mi fu fatta qualche mese fa, alla fine di un incontro all’Università di Verona, da una giovane ricercatrice, dopo che avevo esposto una relazione, il cui testo è stato pubblicato su internet (1), concernente le contraddizioni giuridiche della vicenda riconducibile all’attacco militare della “coalizione dei volenterosi” prima e della NATO poi, contro la Libia del colonnello Gheddafi. In quell’occasione infatti, l’Italia, paese legato alla Libia da un “Trattato di amicizia”, aggrediva l’alleato africano, infischiandosene di alcuni articoli del trattato medesimo:
“1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.”
Allora la giustificazione proposta dal governo italiano fu la seguente: l’azione della comunità internazionale è supportata da una risoluzione del Consiglio di Sicuerezza dell’ONU, per cui non vi è alcun problema giuridico. In realtà la risoluzione dell’ONU, non prevedeva direttamente l’uso della forza, ma proponeva solo un generico impegno a usare tutti i mezzi possibili per il mantenimento e il rispetto della “No fly zone” su cieli libici. Il punto è che, secondo molti giuristi, essendoci anche un richiamo al celebre “Chapter 7″ della Carta dell’ONU, ovvero l’articolo che predispone la possibilità da parte della comunità internazionale dell’uso della forza per il mantenimento della pace nel mondo, di fatto è come se la risoluzione anti-libica prevedesse implicitamente la possibilità di un attacco militare contro la Jamahiria. Ciò basterebbe a capire la complessità delle vicende giuridiche, soprattutto in seno alle dinamiche internazionali. Questa complessità si è riproposta recentemente nella vicenda che caratterizza la diatriba tra l’Iran e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per quello che rigurda il programma nucleare di Tehran. L’accordo di Ginevra firmato qualche settimana fa tra l’Iran e le potenze del CSNU più la Germania (cosiddetto 5+1), prevedeva la sospensione per sei mesi di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica, oltre altri piccoli incentivi, quantificabili in pochi miliardi di dollari, in cambio, di fatto, di un importante ridimensionamento della potenzialità nucleare iraniana. Come spesso accade, gli accordi internazionali, una volta perfezionati dai diplomatici e dai politici, hanno bisogno del parere dei tecnici per poter essere messe in atto concretamente. A questo scopo gli esperti delle delegazioni dei paesi coinvolti nella vicenda (Iran, USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) da alcuni giorni sono impegnati in degli incontri fondamentali a Vienna. Nella giornata di giovedì 12 dicembre però è arrivata una notizia clamorosa. Nel bel mezzo degli incontri di Vienna, il governo nordamericano in maniera del tutto unilaterale ha approvato nuove sanzioni contro alcune aziende iraniane, accusate di avere un ruolo importante nelle ricerche condotte dagli iraniani nel settore atomico. Per via della clamorosa trasgressione nordamericana quindi, è giunta la notizia che la delegazione iraniana ha abbandonato gli incontri di Vienna. Anche una persona inesperta in materia di diritto internazionale comprende bene come la trasgressione USA sia in palese contraddizione con l’accordo di Ginevra. Per sei mesi non dovevano essere promosse nuove sanzioni, a meno che la parte iraniana non avesse adempiuto completamente alle varie clausole. In questo caso gli iraniani avevano dimostrato il massimo della disponibilità, recandosi a Vienna per gli incontri che dovevano attuare le decisioni prese in Svizzera. Insomma, la decisione nordamericana ha fatto cambiare radicalmente la situazione, dimostrando ancora una volta che nella vicenda, sono i dirigenti USA a non volere seriamente perseguire un accordo equo. Ancora una volta il diritto internazionale dimostra quindi di non essere un mezzo giusto, in quanto solo le decisioni dei “potenti” hanno effetti concreti, mentre le trasgressioni degli stessi, non hanno conseguenze pratiche. Dinnanzi a un inadempimento di Washington, quali mezzi concreti ha l’Iran per poter perseguire seriamente, e ripeto, seriamente, le proprie istanze? Nessuna! La risposta che diedi alla giovane ricercatrice veronese fu: “Il diritto non esiste. E’ solo un’astrazione, che può essere concretizzata dalla parte contrattualmente più forte”. Questa vicenda, come quella libica, dimostra per l’ennesima volta il fallimento del diritto internazionale. Il diritto internazionale sarà effettivo solo quando al Tribunale Penale Internazionale potranno essere imputati non solo i leader di paesi, a ragione o a torto, reputati dittatoriali o trasgressori dei diritti umani, ma quando anche i leader della cosiddette democrazie occidentali, saranno imputati ed eventualmente punti, per i loro crimini. Il diritto internazionale sarà effettivo solo quando oltre alle sanzioni contro gli “stati canaglia”, verranno applicate sanzioni anche contro i paesi cosiddetti democratici, per le loro trasgressioni degli accordi e dei trattati internazionali. Fino ad allora, continuerà a prevalere il diritto della forza e non la forza del diritto.

(1) http://www.statopotenza.eu/6947/la-vicenda-dei-maro-in-india-e-la-guerra-contro-la-libia-diritto-costituzionale-ordinamento-interno-e-diritto-internazionale

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