venerdì 18 luglio 2014

Le operazioni terrestri israeliane contro Gaza nell’era del neo-califfato


 

Ali Reza Jalali

Sono iniziate la notte del 17 luglio le operazioni militari dell’IDF (Forze di Difesa di Israele) sul territorio della Striscia di Gaza, dopo circa una settimana di bombardamenti aerei che avevano provocato circa 200 vittime tra i gazawi. L’inizio del conflitto è stato giustificato da Israele dopo l’assassinio di tre israeliani rapiti da ignoti: Tel Aviv ha puntato il dito contro Hamas, anche se quest’ultimo ha sempre negato il coinvolgimento. Recentemente poi, sembra che un gruppo salafita abbia rivendicato l’accaduto.

Alcuni sostengono che il gruppo dei rapitori sia legato in qualche modo allo Stato Islamico, entità che sta mettendo a soqquadro il Medio Oriente, proclamando il califfato dalla Siria orientale all’Iraq occidentale.
 
 

A prescindere dal vero motivo che ha portato Israele a un attacco importante, il più significativo dalle operazioni concluse nel gennaio del 2009 proprio ai danni di Gaza, cercherò di seguito di vedere sommariamente quali possono essere i risvolti dell’attuale conflitto, sia su scala locale, che su scala regionale.

Innanzi tutto cosa vuole fare Israele? Inizialmente Tel Aviv aveva proclamato che l’obiettivo è sconfiggere “i terroristi di Hamas”. Il premier israeliano addirittura aveva affermato che “Israele si toglierà i guanti”, per fare completa pulizia a Gaza; all’inizio delle operazioni di terra però, Israele entra nello specifico dicendo che l’obiettivo reale è quello di distruggere i tunnel, attraverso i quali passano sia i rifornimenti alimentari per la Striscia, ormai soffocata da diversi anni, grazie anche alla collaborazione attiva egiziana con Israele, collaborazione di fatto mai venuta meno da Mubarak a El Sisi, passando per Morsi, sia qualche rifornimento militare.

Proprio ciò sarebbe l’obiettivo di Tel Aviv: evitare che arrivino armi ai miliziani palestinesi, evidentemente non solo a Hamas, ma anche al Jihad Islamico e al Fronte Popolare o agli altri gruppi minori.

La distruzione dei tunnel tramite una operazione di terra però comporta il fatto che Israele deve raggiungere i confini meridionali della Striscia, al limite con l’Egitto, in quanto, se la distruzione dei tunnel voleva essere fatta attraverso raid aerei come in passato, non c’era bisogno dell’operazione terrestre, coi rischi connessi per le truppe dello Stato ebraico, facili prede per i cecchini palestinesi nei meandri della Striscia, uno dei luoghi più densamente abitati del mondo, dove 1,5 milioni di persone sono ammassate in un territorio lungo circa 40 km per una larghezza che non arriva mai a 10 km. In pratica, facendo un paragone, la Striscia di Gaza è più piccola della provincia di Brescia (una zona comunque densamente abitata), ma ha più abitanti.

Spingersi fino a sud con corazzati e carri armati, per distruggere i tunnel, vuol dire inoltre che le operazioni nel territorio di Gaza dovranno per forza di cose prolungarsi: non un’azione lampo quindi. Subito dopo l’inizio delle operazioni di terra sono arrivati i primi feriti e un morto tra le fila dell’IDF. Cosa che, sino all’attacco aereo, non era ancora successo, almeno secondo le fonti israeliane. Bisogna poi considerare che nella prima settimana di guerra, i razzi palestinesi hanno colpito diverse volte Israele, anche le zone settentrionali del paese. Addirittura un drone del braccio armato di Hamas ha sorvolato le città israeliane, nei pressi di Tel Aviv. Il costosissimo scudo “Iron Dome”, sempre secondo fonti israeliane, ha intercettato solo una parte dei razzi palestinesi, dimostrandosi inefficacie per il tipo di missili che deve neutralizzare.

Le forniture militari palestinesi - pur nella loro pochezza nei confronti dell’esercito israeliano - di origine iraniana e siriana, hanno in ogni caso provocato scompiglio tra gli abitanti dello Stato ebraico, creando problemi alla popolazione civile. Ovviamente il paragone con la situazione di Gaza non regge, ma in ogni caso ciò è bastato per costringere le autorità israeliane ha dover dare spiegazioni ai propri cittadini, costringendo alle dimissioni un sottosegretario del gabinetto di Tel Aviv.
 
 

Sul campo di battaglia vi è un netto divario tra Israele e i palestinesi, ma se l’offensiva terrestre continuerà, la possibilità che possa aumentare il numero di morti israeliani è realistica. La società civile israeliana non è abituata ad dover sostenere troppe vittime; questo sicuramente è da prendere in considerazione e complica i piani militari israeliani. Un conto è un’azione lampo, ma se il vero obiettivo è distruggere i tunnel di Gaza, le manovre dovrebbero durare non meno di alcune settimane, andando oltre i 22 giorni del conflitto che infiammò Gaza dal dicembre 2008.

Il conflitto di Gaza ha poi un diretto impatto politico sulle trattative palestinesi per la riconciliazione, dopo tanti anni, tra Hamas e Fatah. La prima vittima del conflitto infatti è il governo di unità nazionale palestinese, una questione che poteva alleggerire la situazione drammatica di Gaza, sotto assedio da parte di Israele e parzialmente anche da parte dell’Egitto.

Ho detto che alcuni analisti hanno ricondotto il rapimento e l’assassinio di tre israeliani con un gruppo vicino allo Stato Islamico del califfo Al Baghdadi, leader di questa entità virtuale che ha preso il sopravvento recentemente nella regione, ormai sempre più preda del radicalismo islamico. Proprio mentre il conflitto a Gaza era appena iniziato però ci sono stati degli scambi di accuse pesanti tra SI e Hamas. I primi hanno accusato il movimento palestinese di essere alleato degli “eretici” sciiti iraniani (Hamas ha proprio recentemente ringraziato l’Iran per il sostegno ricevuto, come anche il Jihad Islamico), mentre Hamas ha vietato ai propri miliziani di esporre i vessilli della fazione di Al Baghdadi, bollando le esternazioni dello Stato Islamico come “settarie”. Inoltre, Ahmed Jibril, leader del FPLP-Comando Generale ha rivelato del passaggio di armi siriane verso la Striscia di Gaza. Ciò è stato confermato anche dagli israeliani nelle primissime ore del conflitto. Insomma, nonostante le difficoltà degli ultimi anni per siriani e iraniani - l’asse Damasco-Tehran è sotto attacco dal 2011 in Siria e da qualche tempo anche in Iraq – e nonostante Hamas abbia preso le difese della ribellione anti-Assad, Iran e Siria rimangono ancorate a Gaza e ai gruppi armati della Striscia, smentendo la propaganda settaria di molti media arabi, riguardo allo scontro sciiti-sunniti. I palestinesi, almeno fino a prova contraria, rimangono sunniti, alleati degli sciiti iraniani (senza dimenticare Hezbollah in Libano) e della Siria, laica sì, ma governata da alcuni decenni da una famiglia (Assad) alawita (ramo sciita). Di fatto, a Gaza le armi israeliane combattono contro le armi iraniane e siriane dei miliziani palestinesi.
 

Come ormai siamo abituati da diverso tempo, le potenze del mondo arabo-islamico rimangono molto passive e oltre condanne verbali dell’attacco israeliano, non ci sono iniziative concrete per sostenere i palestinesi. Non entro nemmeno in merito all’atteggiamento della cosiddetta comunità internazionale, completamente indifferente, non certo da oggi, del destino di milioni di palestinesi, colpevoli di essere nati nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.

Un’ultima osservazione merita poi l’accavallamento degli eventi mediorientali. Oltre al ruolo precedentemente detto dello Stato Islamico e il suo operato, con le connessioni esplicite col conflitto israelo-palestinese (sia Israele che lo Stato Islamico condannano Hamas), lo spazio geografico occupato al momento dalle milizie di Al Baghdadi (Siria-Iraq) riportano alla mente una frase del fondatore di Israele, Ben Gurion, che aveva teorizzato una sorta di area di influenza regionale per Tel Aviv (la famigerata “Grande Israele”, dal Nilo all’Eufrate), auspicando la destabilizzazione dei paesi arabi più importanti intorno allo Stato ebraico, ovvero Egitto, Siria e Iraq. Senza ombra di dubbio l’avanzata dello Stato Islamico indebolisce l’unità territoriale di Damasco e Baghdad; ciò è assolutamente funzionale al progetto israeliano espresso da Ben Gurion diversi decenni fa. Non ho la matematica certezza che tra Al Baghdadi e Ben Gurion ci sia un filo rosso (in realtà la “talpa” Snowden ha recentemente affermato che alcuni elementi dello Stato Islamico sono stati addestrati anche da Israele), ma come ci insegnano alcuni maestri della politica, a pensar male si fa peccato, ma si azzecca quasi sempre.         

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